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livello medio
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ARGOMENTO: SUBACQUEA
PERIODO: XXI SECOLO
AREA: DIDATTICA
parole chiave: modelli, computer subacquei
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Ciò che funziona … funziona!
Affrontiamo oggi un argomento sovente ritenuto ostico e misterioso, e proprio per questo spesso ritenuto materia riservata ai super-specialisti. Parliamo dei modelli decompressivi a doppia fase, (detti anche modelli a bolle), la cui popolarità è in continua crescita, malgrado l’alone di mistero che li circonda. Sarà una veloce ma assolutamente interessante panoramica: ci immergeremo appena sollo la superficie del problema guardandoci bene dall’addentrarci nella giungla di relazioni e formule matematiche complesse delle quali i modelli a bolle sono realmente sovra-saturi.
Su cosa si basano gli algoritmi dei nostri computer?
Quasi tutti i computer che si trovano al polso dei subacquei di tutto il mondo sono programmati secondo algoritmi decompressivi derivati dal modello di Haldane, ovvero modelli cosiddetti “liquidi”. La teoria di Haldane e i modelli derivati da essa, inclusi i valori M di Workmann e Bühlmann, si basa su una profonda semplificazione di un fenomeno fisiologico estremamente complesso. Esso assume che il gas inerte disciolto nei tessuti sia sempre presente esclusivamente in forma liquida, e non in forma gassosa, ovvero all’interno di bolle, purché si mantenga il livello di sovra saturazione al di sotto di un certo limite. Per questo sono oggi chiamati modelli “liquidi”.
Ad Haldane non importava molto capire come e quando effettivamente le bolle si formano ed evolvono, egli era invece fortemente interessato a trovare delle modalità operative di sicurezza, che scongiurassero o limitassero al massimo il rischio di malattia da decompressione per il lavoro in ambiente pressurizzato. In sostanza, i modelli liquidi privilegiano l’efficacia rispetto alla aderenza alla fisiologia umana. Per dirla come il dott. Hamilton, grande studioso statunitense e autore delle tabelle decompressive del NOAA, “ciò che funziona, funziona!”.

photo credit andrea mucedola
Malgrado anche il professor Bühlmann avesse agito nel solco della teoria haldaneana, già dai tempi di Robert Workman c’erano forti sospetti che la formazione di bolle non fosse un fenomeno “on-off”, cioè determinato esclusivamente dal rapporto di sovra saturazione, dai valori M o dagli analoghi parametri dello ZH-L16. La presenza di microbolle nell’organismo umano dopo una immersione fu dimostrata infatti negli anni successivi, grazie alle misurazioni eco-doppler. Questa scoperta spostò l’obiettivo della ricerca sui modelli decompressivi verso la comprensione delle leggi che governano l’evoluzione dinamica di tali bolle, e sulla stima del loro effettivo grado di pericolosità.
Gli indizi che sin dagli anni ‘50 facevano pensare alla presenza di bolle nei tessuti anche in immersioni prive di incidenti erano molteplici, in particolare l’asimmetria delle fasi saturazione e desaturazione. La desaturazione di fatto avviene con tempi più lunghi di quelli calcolabili con le equazioni esponenziali usate nella fase di saturazione, e questo anche perché parte dell’inerte, anziché essere disciolto nel sangue, resta intrappolato nelle bolle. I limiti dei modelli liquidi furono evidenziati anche dall’efficacia delle soste profonde, ancora tuttavia da dimostrare, nel dare maggiore sicurezza all’immersione. Lo sforzo di comprensione e di miglioramento del modello di riferimento ha portato allo sviluppo dei cosiddetti a modelli doppia fase o modelli a bolle, (bubble models), i quali si distinguono dai precedenti proprio perché tengono conto che in qualunque immersione, svolta con qualunque profilo e a qualunque profondità, non tutto l’inerte presente nei tessuti si trova in forma disciolta, ma in piccola parte è anche in forma gassosa, contenuto all’interno di bollicine microscopiche. E’ un percorso di ricerca irto difficoltà, visto che l’obiettivo è quello di rendere ottimo ciò che è già buono, ovvero ridurre a percentuali residuali i già bassi tassi di incidenti riscontrati nelle immersioni professionali e sportive.
I modelli a bolle
Proviamo allora a descrive per sommi capi il funzionamento del modello a bolle di maggior successo di cui disponiamo, il VPM, cominciando col risolvere un apparente mistero: si ha evidenza sperimentale che le bolle sono presenti dopo qualunque immersione, anche se entro curva o condotta nel rispetto dei tempi di decompressione previsti da computer o tabelle. Si sa anche, però, che per generare bolle nel sangue o nei tessuti occorrerebbero condizioni di sovra saturazione molto elevate, non raggiungibili nelle normali immersioni sportive, (sovra-saturazione significa che la tensione di inerte disciolto nei tessuti è superiore alla pressione ambiente). Se quindi le bolle ci sono ma non si generano durante l’immersione non c’è che una spiegazione: evidentemente erano già presenti prima del tuffo, anche senza aver fatto altre immersioni da mesi o anni.
Da dove saltano fuori queste bolle?
Si è potuto dimostrare che sono sempre presenti nel nostro organismo i cosiddetti semi o nuclei di bolle, o micro nuclei, bollicine di dimensioni microscopiche, di numero pressoché costante, mai viste o rivelate da nessuno strumento disponibile date le loro esigue dimensioni. Esse sono generate da varie cause naturali legate alla ordinaria attività muscolare, e hanno dimensioni addirittura dell’ordine del micron (un millesimo di millimetro, quasi un decimo delle dimensioni di un globulo rosso, per intenderci). Tali microbolle restano stabili grazie alle presenza delle sostanze surfattanti, come gli acidi grassi, che si trovano sempre nei liquidi e tessuti organici, e che riescono a stabilizzarle opponendosi alle forze che tentano di disgregarle collassandole: la pressione esterna (idrostatica) e la tensione superficiale. Anche se di dimensioni ridottissime, i micro nuclei possono subire una crescita durante la fase di risalita di una immersione, che li rende vere e proprie bolle rivelabili ed in certi casi pericolose.
Infatti, in condizioni di sovrasaturazione, l’inerte in eccesso ha l’opportunità di trasferirsi all’interno di una bolla già esistente oltre che rimanere disciolto. Se non pre-esistessero questi nuclei di bolle, la PDD praticamente non esisterebbe per ordinarie immersioni, perché come abbiamo detto i valori di sovra saturazione in gioco in immersioni anche profonde non sono sufficienti a generarle. Quindi le odiose bolle ci sono anche se si sono rispettati i criteri imposti dai vari modelli decompressivi utilizzati, non tutte possono essere eliminate a dovere, e parte di esse sono candidate a crescere di volume durante la fase di risalita. I modelli a bolle cercano di determinare un profilo di risalita capace di limitare la crescita di bolle già esistenti, in misura tale che esse non diventino di dimensioni pericolose.
Il “tira e spingi” delle bolle
Innanzitutto chiariamo che cos’è una bolla. Con una grossolana approssimazione potremmo dire che è una pallina di gas interamente circondata dal fluido, o da un tessuto ad esso assimilabile. La sua travagliata esistenza dipende da un equilibrio di forze contrapposte, a loro volta legate a molteplici e variabili fattori. La bolla può essere paragonata ad un palloncino di gomma pieno d’aria: l’unica fondamentale differenza è che la sua superficie è permeabile, e quindi le molecole del gas interno tendono a sciogliersi nel liquido circostante, cioè ad uscire dalla bolla, e le molecole di gas disciolto nel liquido tendono a rientrare nel gas, cioè nella bolla, sempre secondo la ben nota legge di Henry. Il processo è regolato dalla differenza tra pressione interna del gas nella bolla e la tensione del medesimo gas nel liquido circostante.
Consideriamo ora una bolla gassosa immersa in un fluido organico, al quale è assimilabile un tessuto del nostro organismo.

Equilibrio di pressioni su una bolla in presenza di surfattanti http://www.marpola.it/Tecnica e Medicina/163.htm
Le pressioni in gioco sono:
- la pressione interna del gas e il contributo delle sostanze surfattanti, che spingono dall’interno della bolla verso l’esterno;
. - la pressione esterna e la tensione superficiale che spingono dall’esterno della bolla verso l’interno.
La tensione superficiale si manifesta su qualunque superficie di separazione tra liquido e gas a causa della differenza di densità tra le due fasi. In questa specie di tiro alla fune, che avviene in corrispondenza della superficie della bolla, abbiamo quindi due squadre che si fronteggiano: da una parte la pressione interna con il rinforzo dei surfattanti, dall’altra la pressione esterna alleata della tensione superficiale. L’equilibrio delle spinte di queste due squadre determina in ogni istante il volume (e quindi il raggio) della bolla.
Questa relazione vale in condizioni di equilibrio, cioè quando la bolla ha un raggio stabile. Naturalmente questo equilibrio è continuamente alterato dal fatto che la pressione esterna dipende dalla profondità, quella interna dal continuo passaggio di gas nei due sensi attraverso la superficie della bolla, governato dalla legge di Henry, mentre tensione superficiale e pressione dovuta ai surfattanti dipendono dal raggio istantaneo della bolla. Tramite il modello VPM si è riusciti a schematizzare questi fenomeni, scoprendo che le microbolle esistenti tendono a crescere o a collassare durante la risalita da una immersione a seconda delle loro dimensioni iniziali. Del modello VPM parleremo più approfonditamente nei prossimi articoli
fine parte I – continua
Luca Cicali
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