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Miti e tradizioni del mare: Il Signore della nave – articolo di Anna Ceffalia e Isidoro Passanante

tempo di lettura: 6 minuti

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livello elementare
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ARGOMENTO: MITI E TRADIZIONI DEL MARE

PERIODO: XII SECOLO
AREA: MAR MEDITERRANEO – SICILIA
parole chiave: Chiesa di San Nicola, Agrigento

 

Secondo un giudizio storico, largamente condiviso, la chiesa più bella della Sicilia dedicata a San Nicola è quella di Agrigento, appena fuori dal centro urbano ed adiacente al Museo Archeologico Regionale, con vista panoramica sulla collina dei Templi in un’area che è stata recentemente identificata come il luogo dell’agorà superiore dell’antica Akragas.

Storia
La sua edificazione risale ai primi del XII secolo, come s’evince da un documento rinvenuto dallo storico Rocco Pirri, che né indica chiaramente l’esistenza già nel 1181, ed il tufo necessario venne preso nella cava dei giganti come veniva, comunemente, indicato il tempio di Zeus Olympeion sito nella Valle dei Templi. Invece in un secondo documento, stilato nel gennaio 1219, è riportato che il Vescovo Ursone: “col concorso dei suoi canonici cedette a Pellegrino, Priore di Santa Maria in Adrano ed alla congregazione, il monastero che a causa delle guerre era stato distrutto. Parimenti la Chiesa di San Nicola che è fuori la città vecchia insieme alle terre …”. Nel suddetto sito, qualche tempo dopo, nacque un cenobio che divenne l’abazia dei monaci Cistercensi. Nella prima metà del XIV secolo il complesso monastico passa ai Benedettini e poi, nel 1426, ai Francescani. Secondo quanto scrivono alcuni studiosi, nella prima metà del XVI secolo, alla chiesa sarebbero state apportate delle integrazioni in stile romanico, quindi quella che oggi si ammira sarebbe solo una imitazione cinquecentesca che avrebbe sostituito in gran parte il monumento originario. La facciata è scandita da due alti ed importanti contrafforti che racchiudono un bellissimo portale ad arco acuto, mentre l’interno, ad una navata composta da quattro campate, è coperto da una volta a botte acuta. Sulla parete di fondo si aprono cinque arcatelle rinascimentali dentro le quali vi sono affreschi cinquecenteschi raffiguranti figure di santi. Le opere poste ai lati dell’altare maggiore raffigurano san Corrado (a sinistra) e sant’Onofrio (a destra). Nel coro vi sono altri affreschi, forse del XV secolo, e un grosso frammento di trabeazione classica inserito nella parete. Sul lato destro si aprono quattro cappelle. Nella prima si trova una Madonna col Bambino, una scultura in marmo a tutto tondo attribuita a Antonello Gagini; nella seconda è conservato un sarcofago in marmo romano (III secolo d. C.) detto di Ippolito e Freda, particolarmente amato da Johann Wolfagang von Goethe; mentre sulla sinistra, di fianco all’altare, si trova un Crocifisso ligneo policromo comunemente chiamato Signore della Nave. Questo stupendo Cristo morto in croce, forse di scuola greca di fine ‘400, era appartenuto, secondo la tradizione, ad una nave proveniente dall’oriente e portato fino all’antico caricatore di Girgenti da una ciurma straniera. E’ un Cristo ossessivamente attorniato da una sofferenza senza tempo. La sua drammaticità è sottolineata dal sangue che fuoriesce dalle ferite e dalla verità anatomica di un corpo lacerato dalla flagellazione. Il Signore della Nave, che peraltro ha una denominazione ispirata al mare, per secoli è stato oggetto di una intensa devozione da parte di marinai.

Il Signore della Nave
Ciò risulta anche dalla testimonianza di Luigi Pirandello che nella novella omonima, diligentemente annota: “fa miracoli (…) questo Signore della Nave, come si (…) vedere (…) dalle tabelle votive, (…) col suo mare blu in tempesta, che non potrebbe essere più blu di così ed il naufragio della barchetta col nome scritto bello grosso a poppa, che ciascuno possa leggerlo bene e insomma ogni cosa, tra le nuvole squarciate e questo Cristo, che appare alle supplicazioni dei naufraghi e fa il miracolo”(Pirandello – 1922, 607).

Tutte le tavolette votive, testimonianze che ricordavano la presenza dell’offerente graziato o del protettore, erano appese ad una parete della chiesetta. In esse, con fedeltà e precisione, erano descritte le tecniche di costruzione di scafi, alberi e vele, i porti e i mari toccati, i tipi di commercio sviluppati, ma soprattutto era descritto l’amore per un mestiere, che per mille difficoltà e pericoli era stato la ragione di vita d’intere generazioni che dal mare avevano imparato a trarre il proprio sostentamento. Un mestiere duro e difficile, più volte rinnegato ma sempre amato nei fatti. Per renderne illustre la sua fama si ricorse, anche, a quel genere letterario proprio del leggendario, ossia: “si narrò di una nave che lo trasportava e che in mare fu colta da un violento nubifragio che lo fece affondare; i naviganti si aggrapparono a quel Crocifisso, destinato ad una nobildonna trapanese, e si salvarono approdando sulla costa sanleonina” (Allotta di Belmonte – 2000, 153).

Quello che Pirandello descrive è una importante testimonianza che purtroppo, grazie a una certa superficialità, dovuta alla scarsa considerazione, in cui fino a non molto tempo fa, erano tenute queste autentiche opera d’arte, senza contare l’incuria materiale degli uomini nel custodirle, ha fatto si che gran parte di esse andassero perdute. Lo scrittore sottolinea ancora che: “ci dev’essere, se si chiama così questo Signore, qualche storia o leggenda ch’io non so. Ma certo è un Cristo che, chi lo fece, più Cristo di così non poteva fare: ci si mise addosso con una tale ferocia di farlo Cristo, che nei duri stinchi inchiodati sulla rozza croce nera, nelle costole che gli si possono contare tutte, a una a una, tra i guadalischi e le lividure, non un’oncia di carne gli lasciò che non apparisse atrocemente martoriata. Saranno stati i giudei sulla carne viva di Cristo; ma qui fu lui, lo scultore. Quando però si dice, essere Cristo e amare l’umanità” (Pirandello, cit., 607).

Secondo la tradizione per l’Esaltazione della Santa Croce si celebrava una grande sagra. Infatti in onore del SS. Crocifisso, il 14 settembre di ogni anno, veniva officiata una messa cantata, una processione, ma soprattutto avveniva la scanna dei maiali. Di prima mattina, tra la polvere dello stradone, branchi di maiali erano avviati ballonzolanti e grufolanti al luogo della festa. Qui, tra baracche improvvisate con grandi lenzuola, nello spiazzo davanti la chiesetta di san Nicola, in taverne allestite all’aperto, tra barili di vino, panche, tavole, ceppi di macellaio e grossi fornelli portatili: “un velo di fumo grasso misto alla polvere annebbiava lo spettacolo tumultuoso della festa; ma pareva che non tanto quella grossa fumicaja, quando lo straordinario cagionato dalla confusione e dal baccano impedisse di vedere chiaramente. (…). I venditori ambulanti, gridavano la loro merce; i tavernai invitavano alle loro mense apparecchiate; i macellai ai loro banchi di vendita, intonavano il bando, senza forse saperlo, su le strida terribili dei porci che là stesso, in mezzo alla folla, erano macellati, (…). E le campane della gentile chiesina ajutavano le voci umane, rintronando all’impazzata, senza posa, a coprire pietosamente quelle strida” (ibidem, 607).

Nella festa la chiesa vedeva il potere della Santa Croce estendersi in ogni angolo del mondo, ecco perché, nella cerimonia sacra, il sacerdote nel volgersi per benedire verso ogni punto cardinale, pronunciava: i quattro angoli della terra, o Cristo nostro Dio, sono oggi santificati; mentre il popolo, nel maiale macellato e ritualmente sacrificato sul fuoco, vedeva compiersi una cerimonia a carattere propiziatorio e purificatore di campi, animali e mare.

Rito questo a garantire il regolare svolgersi dei cicli stagionali, per assicurarsi la fecondità dei raccolti, la buona pesca, ma soprattutto, per solennizzare i passaggi da una fase all’altra dell’anno. Il fuoco riveste sempre una notevole importanza, forse per l’antica identificazione di Gesù con il sole nascente. Qui l’ignis, che una leggenda vuole essere stato rubato agli inferi e l’animale ctonio per eccellenza, il suino (sus scrofa domesticus), ritualmente sacrificato alla divinità della terra da epoche remote, sono gli elementi cardine della sagra. Elementi questi che insieme al consumo della suppa di ciciri (ceci secchi cucinati con la cotenna), all’uso di offrire in sacrificio sulla brace ardente le carni del maiale, alla tradizione diffusa nel passato di allevare il maiale a spese dell’intera comunità, lasciandolo libero di circolare nel paese per poi essere macellato il giorno della festa: “sono (…), tutti comportamenti rituali riferibili a divinità estratto dal saggio pubblicato su Ricerche per mare  – edito dalla Sovrintendenza del mare Siciliana. 2018 a cura di Alessandra de Caro e Sebastiano Tusa. infere (Buttitta, I. E. – 2006, 114).

L’accensione del fuoco evidenzia l’esigenza di ringraziamento nei confronti delle divinità ctonie, e il consumo di cereali e grasse cotenne: “è un esplicito mangiare i morti insieme ai morti, e lo stesso vale per l’uccisione e il consumo del maiale” (Buttitta, I. E. – cit., 115). A ben vedere il maiale ci richiama la figura di Maia, dell’antica dea della fecondità e del risveglio della natura che il 1 ° maggio di ogni anno riceveva, da parte di Vulcano, una scrofa gravida in modo che anche la terra fosse gravida di frutti; ma soprattutto, ci rinvia al secondo giorno dei misteri maggiori di Eleusi, ossia al 17 di Boedromion (metà settembre ed equinozio d’autunno), dove i mystai (iniziandi) si recavano alla spiaggia del Falero per effettuare la purificazione, infatti si tuffavano nell’acqua del mare con un porcellino. Il lattonzolo, o scrofetta se di sesso femminile, veniva offerto in sacrificio alla figlia di Demetra, poiché l’alternarsi delle stagioni ricordava l’alternarsi dei periodi di Kora-Persefone trascorreva sulla terra e ali’ Ade.

Anna Ceffalia – Isidoro Passanante

 

estratto da Ricerche per mare  – edito dalla Sovrintendenza del mare Siciiana. 2018 a cura di Alessandra de Caro e Sebastiano Tusa.

 

 

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