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Marittimità romana – parte II

tempo di lettura: 7 minuti

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livello elementare

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ARGOMENTO: STORIA ROMANA
PERIODO: VIII – IV SECOLO a.C.
AREA: DIDATTICA
parole chiave: marittimità, Roma

 

L’Urbe possedeva dunque, già in epoca regia, un sistema portuale fluviale-marittimo unito da un breve tratto di fiume strettamente controllato fino alla foce. Questa felice situazione indusse gli antichi a valutare che Roma godesse fin dalle origini di tutti i vantaggi di una città marittima senza averne i difetti (Cicerone), potendo beneficiare del commercio marittimo pur senza essere esposta alle incursioni provenienti dal mare (Livio), e che la fondazione di Ostia avesse fatto di Roma una città marittima (Dionigi di Alicarnasso), predisponendola a ricevere viveri e ricchezze da tutto il mondo (Floro) [20].

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Poiché queste considerazioni, ancorché riferite al periodo regio, sono state formulate molti secoli dopo, viene normalmente da pensare che i rispettivi autori avessero espresso opinioni più influenzate dalla mentalità corrente che non dalla conoscenza di quell’epoca arcaica. In effetti abbiamo sempre la presunzione di poter giudicare il mondo antico con maggior cognizione di causa di quanto potessero farlo i contemporanei. Eppure questi ultimi disponevano di documenti storiografici molto più remoti, che non ci sono pervenuti. Per i periodi anteriori, questi ultimi testi avevano a loro volta potuto beneficiare di altre fonti precedenti a noi precluse, quali gli Annales Maximi, il materiale epigrafico, i riti religiosi e la trasmissione orale, le cui sempre possibili distorsioni erano comunque alquanto limitate dal “controllo del gruppo sociale” [21]. Va peraltro riconosciuto che i dati essenziali tramandati dalla storiografia romana sulle epoche più arcaiche hanno finora ricevuto sempre maggiori conferme dall’archeologia e dalle altre discipline ad essa collegate.

Alla caduta della monarchia, i Cartaginesi stipularono con la neonata repubblica un importante trattato navale, “la cui datazione nell’ultimo quarto del VI secolo non dovrebbe più oggi sollevare dubbi[22]. Si tratta infatti di un documento del tutto coerente con gli accordi bilaterali che i Punici stipulavano a quell’epoca con varie città etrusche e che consistevano, secondo l’autorevole testimonianza di Aristotele (ipse dixit!), in “convenzioni a tutela della sicurezza e trattati di alleanza per la mutua difesa … allo scopo di premunirsi da qualsiasi danno reciproco” [23]. Nel caso del trattato con i Romani, il cui testo originale in latino arcaico è stato reperito da Polibio [24], vi sono soprattutto dei vincoli ai movimenti delle navi da guerra romane, cui era interdetto il golfo di Cartagine, e qualche restrizione meno drastica per le onerarie romane che approdavano in Africa, in Sardegna ed in Sicilia, mentre veniva riconosciuto che la costa laziale ricadeva nella sfera d’influenza di Roma. In pratica questo documento, oltre ad evidenziare lo squilibrio fra l’embrionale potenza romana e lo strapotere navale cartaginese nel Mediterraneo occidentale, denota una certa attenzione punica nei confronti del naviglio di Roma, che includeva già delle unità da guerra ed i cui mercantili si spingevano fino alla costa nordafricana.

L’utilizzo di navi da parte dei Romani nei primi decenni della repubblica è stato anche menzionato dalle fonti per sottolinearne l’indispensabilità nel fronteggiare situazioni di estrema emergenza, quali lo stato d’assedio e le più gravi carestie [25]. Ciò corrisponde d’altronde ad un’esigenza costante in tutta la storia dell’antica Roma: quella “necessità” di navigare (efficacissimamente espressa dalla celebre esclamazione di Pompeo Magno [26]) che i Romani hanno provato sia nell’epoca arcaica, quando la città circondata da popolazioni ostili dovette importare per via marittima i propri rifornimenti vitali, sia nelle epoche dell’espansione e dell’impero, poiché la crescita dell’Urbe comportò un’ininterrotta sua dipendenza dagli approvvigionamenti provenienti dalle regioni d’oltremare.

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nave oneraria romana presso il faro di Pharos, mosaico museo navale di Albenga

Rimane infine da capire quali fossero le prime navi utilizzate dai Romani e come facessero quei natanti a risalire il Tevere prima che fosse istituito il complesso servizio di rimorchio delle navi fluviali (codicarie) con i buoi da traino che procedevano lungo la riva sinistra. In realtà nessuno sa quando tale antichissimo servizio [27] entrò in funzione, perché nessuna fonte classica ne ha mai parlato [28]. In assenza di un rimorchio, sarebbe stato molto difficile ad una nave da carico percorrere controcorrente tutti i meandri del Tevere fino a Roma con la sola propulsione velica; per contro vi riuscivano le navi dotate di remi come quelle da guerra e certe onerarie arcaiche. Nel VI e V secolo a.C., inoltre, erano sempre in uso nel Mediterraneo le versatili pentecontore: navi da 50 remi disposti su di un solo ordine, originariamente concepite come unità da guerra e poi adattate ad altri compiti quando furono surclassate dalle triremi. Sappiamo da Erodoto [29] ch’esse furono usate dai Focesi per le loro lunghe navigazioni. Esse continuarono poi ad essere apprezzate [30] come mezzo di trasporto celere di personale o materiale, essendo sufficientemente veloci [31] per eludere gli attacchi dei pirati e idonee a risalire il corso dei fiumi. Queste potrebbero pertanto essere state fra le prime navi che i Romani fecero ormeggiare nel Portus Tiberinus, per scaricare le merci importate e caricarvi quelle destinate all’esportazione. Abbiamo infatti la certezza che Roma abbia posseduto delle proprie pentecontore, visto che un esemplare di questo tipo di unità fu gelosamente conservato in una sorta di sacro museo navale situato sulla riva meridionale del Campo Marzio, laddove c’erano i Navalia, la base navale cittadina. Quell’eccezionale cimelio, accuratamente sottoposto a continue manutenzioni nel proprio sacrario, si trovava ancora lì nel VI secolo d.C., venerato come “la nave di Enea”, quando venne esaminato da Procopio di Cesarea, giunto a Roma al seguito delle truppe bizantine nel corso della Guerra Gotica [32].

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Trireme romana, museo di Napoli

Abbiamo fin qui delineato per sommi capi quale possa essere stato il rapporto fra i Romani dell’epoca arcaica ed il mare: dagli scarni dati in nostro possesso, tutto lascia capire che si trattò fin dall’inizio d’un rapporto molto stretto, tanto che – come si è detto – nell’antichità l’Urbe fu considerata funzionalmente equivalente ad una città marittima [33]. Per le nostre valutazioni conviene però andare oltre questa categorizzazione generica, riferendoci invece al concetto di marittimità, nel suo significato più ampio.

In particolare, se ci si limita alla geografia fisica, la marittimità viene normalmente definita [34] come il carattere marittimo di un territorio. Se invece si considera, oltre a quella fisica, anche la geografia umana, per marittimità dobbiamo necessariamente intendere il carattere marittimo dello Stato nella sua interezza (territorio, popolazione, economia, infrastrutture, ecc.), e dunque anche la familiarità della relativa popolazione con l’ambiente marittimo e con la navigazione. Sotto quest’ottica dobbiamo riconoscere che la marittimità di Roma fu apprezzabile fin dalle più lontane origini della città e diventò elevata dopo la fondazione di Ostia, ancora in epoca regia, quando i movimenti del naviglio utilizzato dai Romani iniziarono ad attirare l’attenzione della “superpotenza” navale punica.

Se continuassimo ad esaminare la millenaria storia navale e marittima dell’antica Roma, troveremmo un numero di navi progressivamente crescente, una prima squadra navale nel IV sec. a.C. e delle flotte poderose a partire dal secolo successivo; troveremmo anche una serie impressionante di combattimenti navali contro le maggiori ed espertissime potenze navali del Mediterraneo, con l’immancabile successo finale delle navi romane, divenute imbattibili anche sul piano prettamente marinaresco; troveremmo quindi due secoli di espansione oltremare, con l’uso delle flotte per lo sbarco su tutte le sponde e le isole di quello che doveva diventare il Mare Nostrum; troveremmo dunque un impero genuinamente marittimo, interamente disteso intorno a questo “mare immenso” [35]; troveremmo, in definitiva, un mare felice, che per oltre quattro secoli rimase pacificato e bonificato della pirateria, accuratamente controllato dalle navi e dalla legge di Roma, e pertanto godibilissimo, brulicante di attività navali – commerciali, pescherecce e lusorie – ed attorniato da porti, moli, fari, peschiere e splendide ville marittime.

Questo straordinario risultato, che non era mai stato nemmeno immaginato prima dei Romani, non è mai più stato conseguito, dopo di essi, da alcun’altra grande potenza navale al mondo. Eppure permane piuttosto tenace il tarlo del preconcetto secondo cui i Romani rimasero sempre condizionati dalla loro (presunta) avita rusticità, aliena dal mare e dalla navigazione [36]. Perdurando tale sospetto, il dominio di Roma sul mare continuerebbe ad essere sottovalutato alla stregua di un’anomalia casuale – quasi fosse un accidentale effetto collaterale dell’espansione oltremare (anziché esserne stato l’indispensabile propulsore) –, se non si ponesse una minima attenzione anche alle più remote origini della marittimità romana.

Domenico Carro

Note
[20] Cic. rep. 2, 5; Liv. 5, 64; Dion. Hal. ant. 3, 44, 1-4; Flor. epit. 1, 4, 2.
[21] E. Gabba, Introduzione alla storia di Roma, Milano 1999, pp. 24-26.
[22] M. Pallottino, Storia della prima Italia, Milano 1994, p. 102.
[23] Aristot. pol. 3, 10,1280a.
[24] Pol. 3, 22.
[25] Eventi degli anni 508 (Dion. Hal. ant. 5, 26, 3-4), 492 e 491 a.C. (Liv. 2, 34).
[26] Plut. Pomp. 50.
[27] Se ne presume l’antichità perché Seneca fa derivare la denominazione delle navi codicarie ex antiqua consuetudine (Sen. brev. 13, 4).
[28] Ne abbiamo solo la descrizione redatta da Procopio in epoca altomedievale, quando il servizio era rimasto funzionante sulla riva destra (Proc. B.G. 1, 26, 2).  
[29] Hdt. 1, 163.
[30] Anche in Italia (Pol. 1, 20, 14).
[31] Veloci come le liburne, ma meno delle triremi (Zos. 5, 20).
[32] Proc. B.G. 4, 22, 2-3; F. Coarelli, Il Foro … cit., pp. 123-127.
[33] Precedente nota 20.
[34] Dizionario Enciclopedico Italiano, Roma 1970.
[35] Cic. prov. 31.
[36] Un analogo pregiudizio influenzò anche qualche antico Greco. Ad esempio, Polibio era convinto che i Romani avessero avuto solo nel 260 a.C., durante la I Guerra Punica, la prima esperienza di utilizzo di una propria flotta da guerra (Pol. 1, 20, 8), mentre essi già operavano in mare con una squadra navale fin dal IV sec. a.C. (Liv. 8, 13-14; 9, 30 e 38; Theophr. h. plant. 5, 8).

 

 

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