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livello elementare.
ARGOMENTO: STORIA NAVALE
PERIODO: XVI-XVIII SECOLO
AREA: MAR LIGURE
parole chiave: Genova
3. La componente terrestre: isolamento e fortificazioni
La Repubblica aveva una frontiera terrestre che si poggiava, a nord, sulla catena appenninica. Su questo fronte il governo genovese nei secoli dell’età moderna portò avanti una politica di difesa improntata sulla necessità di risparmiare risorse, sia militari che finanziarie: una strategia che aveva il proprio baricentro nell’isolamento, ossia nella riduzione al minimo indispensabile delle vie di comunicazione con la Pianura Padana, presidiando con fortificazioni le poche esistenti (i massimi esempi in tal senso sono costituiti dal forte di Gavi sulla strada per Milano e dalla fortezza del Priamar a Savona – al contempo baluardo difensiva sul fronte terra e sul fronte mare – posizionata allo sbocco della strada che scende dal colle di Cadibona) (Rossi 2003, p. 39). Per le frontiere marittime una politica di difesa basata sull’isolamento era, come è facile intuire, poco praticabile, perché il mare è lo spazio aperto per eccellenza: una via di comunicazione con pochi passaggi obbligati, difficile da controllare e quasi impossibile da chiudere, soprattutto quando, come nei casi ligure e còrso, abbondano i litorali ricchi di approdi. Il principio dell’isolamento poté essere applicato solo ad una delle problematiche di cui abbiamo parlato prima: la difesa contro la minaccia rappresentata potenze europee (vera o presunta che fosse). In ambito marittimo ridurre le vie di accesso da parte di un’armata straniera alla Liguria e alla Corsica voleva dire, al contempo, evitare di realizzare scali artificiali di grandi dimensioni e proteggere i pochi porti naturali capaci di accogliere una flotta durante le operazioni di sbarco di un esercito invasore. Da qui derivò una politica volta ad impedire lo sviluppo di infrastrutture portuali e, soprattutto a partire dal primo Seicento (in seguito dall’onda emotiva provocata dall’occupazione spagnola del marchesato di Finale nel 1602), la particolare attenzione dedicata alla difesa dei due principali punti sensibili delle Riviere, la rada di Vado e al golfo di La Spezia.
Se la rada di Vado e il porto di La Spezia erano gli unici due porti naturali in grado di ospitare una grande flotta, nel caso dei bastimenti corsari barbareschi ogni approdo rappresentava un problema: le coste liguri e còrse erano esposte nella loro interezza alle incursioni dei legni armati dalle Reggenze di Algeri, Tunisi e Tripoli.
Genova reagì a questa condizione di vulnerabilità strutturale varando, nella seconda metà del Cinquecento e nel primo Seicento, un vasto programma di fortificazione dei litorali. Ciò portò alla formazione di un cordone pressoché continuo di torri, forti e fortezze, realizzato grazie al contributo economico e materiale delle comunità locali e, per il caso della Corsica, di patrizi genovesi e notabili isolani.
Piazzeforti, fortezze, borghi murati, fortilizi (spesso definiti “castelli”) e torri sono ancora adesso un tratto caratteristico del paesaggio costiero ligure e còrso, vestigia di quello che Marco Lenci ha definito come «l’imponente complesso di difesa costiero facente capo alla Repubblica di Genova» (Lenci 2006, p. 88). Un complesso realizzato in risposta alla minaccia barbaresca, ma funzionale anche per far fronte ad altre problematiche: le fortificazioni costiere costituivano infatti una rete capillare deputata tanto alla difesa quanto ai controlli fiscali e sanitari. In linea di massima le guarnigioni che presidiavano queste fortificazioni erano composte da truppe dell’esercito regolare (per le installazioni maggiori) e truppe locali (per le installazioni minori). Nel secondo caso possiamo fare una distinzione fra i reparti locali in servizio permanente (come le squadre di soldati «abitanti», «a piedi» e a «a cavallo» còrse) e la milizia territoriale, che serviva con un sistema di turnazione ed era mobilitata in massa solo in caso di emergenza. Si trattava di truppe di fanteria, con la sola eccezione di cinque piccole squadre di cavalli leggeri (o soldati a cavallo) – di stanza nelle aree pianeggianti della costa orientale della Corsica e a Sarzana – concepite come forze di reazione immediata, e non a caso localizzate in zone nelle quali erano più praticabili gli spostamenti via terra (Beri 2011b, pp. 87-94; Giacomone Piana e Dellepiane 2004, pp. 80-102).
4. La componente navale: la Marina da guerra
Il controllo degli spazi marittimi liguri e còrsi e la protezione dei litorali del Dominio di Terraferma e della Corsica era lo scopo stesso dell’esistenza delle forza navali della Repubblica. La Marina da guerra genovese era una realtà composita, formata in parte da una flotta statale permanente, in parte da imbarcazioni private impiegate in caso di necessità o armate per specifici scopi e in parte, per alcuni periodi, da unità che stavano a metà strada fra il pubblico e il privato, fra il servizio permanente e quello temporaneo.
La storia della Marina genovese si può suddividere, a grandi linee, in tre periodi, di durata secolare – il Cinquecento, in Seicento e il Settecento – caratterizzati da un diverso rapporto fra componente statale e privata.
Nel Cinquecento la Repubblica non ritenne mai necessario dotarsi di una forza navale statale che non fosse puramente simbolica, potendo contare, in caso di necessità, sulle galee della famiglia Doria e degli altri assentisti al servizio dell’alleata Spagna. Lo stuolo permanente di galee rappresentò costantemente una forza di modestissima entità, oscillando fra le due-tre unità della seconda metà del Cinquecento e lei sei-sette del pieno Seicento, esso tuttavia possedeva il pregio di essere completamente statale, ossia finanziato al 100% dall’erario; probabilmente la prima flotta del genere nell’Europa dell’età moderna. Per avere un’idea del rapporto di forze tra la componente pubblica e quella privata nel XVI secolo, si tenga presente che nel 1571 le galee degli assentisti al servizio della Spagna di base a Genova (escludendo quindi quelle inquadrate nelle flotte dei regni di Napoli e Sicilia) erano 24, mentre lo stuolo statale ne contava solo tre (Borghesi 1973; Lo Basso 2003, pp. 206-311; Barbero 2010, pp. 623-634). Nel corso del Seicento il ridimensionamento della squadra degli assentisti e un parziale desiderio di sganciamento dall’alleanza spagnola e di recupero della potenza marittima medievale – proprio del partito navalista – portò a nuovi intendimenti nel campo della politica navale. Da ciò derivarono: l’incremento dello stuolo permanente, l’allestimento di una squadra di navi da guerra di linea (o «galeoni») e l’esperimento delle galee di libertà. L’allestimento di galee di libertà, avviato nel 1636, prese origine da un’iniziativa privata e dall’idea di armare galee ciurmate con soli rematori liberi (quindi senza schiavi e forzati) reclutati fra le comunità della riviere attraverso un sistema di leva marittima. Dopo le prime favorevoli esperienze il numero di queste unità crebbe, raggiungendo il massimo di nove alla metà del secolo.
Si trattava di armamenti non permanenti, la cui consistenza numerica variò di anno in anno in relazioni a fattori contingenti. Ma già nel 1658, pochi anni dopo il periodo di maggior fortuna, l’esperimento fu accantonato, e anche la squadra di navi di linea – che raggiunse un massimo di quattro unità destinate per lo più alla scorta di convogli – rappresentò niente più che una rapida parabola racchiusa nel breve volgere di mezzo secolo. Agli esordi del Settecento la forza navale genovese era nuovamente ridotta alle sole galee dello stuolo ordinario, sei in tutto (dopo essere arrivate ad un massimo di otto durante il Seicento); una cifra destinata peraltro a dimezzarsi nel corso del secolo (Calcagno 1973; Lo Basso 2003, pp. 252-266).
Questa flotta striminzita era inadeguata per affrontare le problematiche connesse alla necessità di proteggere e controllare gli spazi marittimi in un quadro, quello settecentesco, caratterizzato dalla fine della secolare alleanza con la Spagna, da una nuova e più intensa conflittualità intraeuropea (con relativa presenza di corsari nel mar Ligure) e dallo scoppio di una quarantennale insurrezione in Corsica. Le guerre di Corsica (1729-1768), in particolare, posero in forma nuova il problema della lotta al contrabbando marittimo – nella misura in cui Genova tentò a più riprese di sottoporre l’isola a blocco navale, allo scopo di interdire il flusso di rifornimenti che dal continente raggiungeva gli scali controllati dai sollevati – determinando al contempo una condizione di instabilità nel sistema di difesa e controllo delle frontiere marittime della Repubblica, conseguenza della perdita, de facto, di quel antemurale del mar Ligure che la Corsica rappresentava. La strategia adottata dalla Repubblica fu quindi quella di puntare sull’armamento straordinario di bastimenti mercantili noleggiati stagionalmente nelle comunità marittime delle Riviere liguri. Non si trattava di una novità assoluta: già nel Seicento l’armamento privato era una forma molto diffusa di reazione spontanea alla minaccia barbaresca ed era praticato normalmente dalla Repubblica per: dotare le galee di unità leggere di conserva adatte alle operazioni di caccia; sostenere i bastimenti armati dalla Casa di San Giorgio (a cui competevano i poteri di polizia fiscale) nella lotta al contrabbando; pattugliare le coste durante le emergenze sanitarie e incrementare, al bisogno, gli effettivi della squadra di navi di linea. La novità sta nelle dimensioni che tale strumento assunse nel Settecento e nella frequenza con cui fu utilizzato, tanto da essere – in un particolare ambito operativo, quello della caccia ai corsari barbareschi – istituzionalizzato attraverso la costituzione della Compagnia di Nostra Signora del Soccorso, una confraternita sui generis a direzione statale nata allo scopo di raccogliere fondi da investire nell’allestimento di unità da guerra (Calcagno 2010, pp. 489, 491, 492, 495, 496, 512, 527-529; Assereto 2011, pp. 150-151; Beri 2011a, 2011b pp. 183-219; 2013 pp. 19-23, 2016a, 2016b)
5. Conclusioni
Concludo con due brevi considerazioni di ordine generale. Lo stato genovese d’età moderna era un organismo leggero, e questa sua “leggerezza” è stata spesso tradotta in termini esclusivamente negativi, cioè di uno stato minimo, povero di risorse, dotato di apparati inadeguati, assente, poco efficiente. Penso invece che, alla luce di quanto ho esposto, si debba proporre una diversa linea interpretativa, più attuale, che vede nella “leggerezza” non necessariamente un handicap. Dal punto di vista della capacità di difesa e di controllo Genova fra XVI e XVIII secolo ha infatti compensato la pochezza dei suoi apparati attraverso il ricorso alle risorse private e/o locali sia sotto il profilo dell’organizzazione ordinaria e permanente (come nel caso della costruzione e gestione delle fortificazioni costiere) sia di quella straordinaria e temporanea (come nel caso delle risorse navali mobilitate nelle emergenze belliche, sanitarie e di ordine pubblico), stabilendo un rapporto virtuoso fra centro e periferia che si basava sul binomio consenso-reciprocità. E all’interno di questo rapporto la leggerezza dello stato, e la bassa pressione fiscale ad essa correlata, costituivano l’elemento cardine, in assenza del quale gli aspetti virtuosi del rapporto sarebbero venuti meno. Siamo in presenza, in definitiva, di uno stato leggero, minimo, è vero, ma non per questo assente e poco efficiente, anzi: gli studi più recenti dimostrano il contrario.
Emiliano Beri
testo tratto dalla relazione presentata al convegno internazionale “Navi genovesi nel Secolo dei Genovesi”, Archivio di Stato di Genova, 6 aprile 2018
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Emiliano Beri si è laureato con lode in Storia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Genova. Nel 2011 vi ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Storia, discutendo una tesi sulle guerre di Corsica del medio Settecento. Dal 2012 al 2016 è stato assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Antichità, Filosofia, Storia e Geografia dell’Università di Genova. Negli anni accademici 2016-17 e 2017-18 ha insegnato Storia sociale nel corso di Laurea triennale in Storia e Storia militare nel corso di Laurea magistrale in Scienze Storiche della Scuola di Scienze Umanistiche dell’Università di Genova. Per l’anno accademico 2018-19 è stato docente aggregato di Storia militare nel corso di Laurea magistrale in Scienze storiche della stessa Scuola. A partire dall’anno accademico 2019-20 è docente aggregato sia di Storia militare che di Storia sociale.
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