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No Plastic at Sea campaign 2017, analisi di un problema che ci riguarda tutti

tempo di lettura: 7 minuti

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livello elementare
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ARGOMENTO: EMERGENZE AMBIENTALI
PERIODO: XXI SECOLO
AREA: MAR MEDITERRANEO
parole chiave: plastica

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L’Era della plastica
Negli  ultimi 50 anni, l’utilizzo massivo delle materie plastiche in tutti i settori ha raggiunto livelli impensabili e la produzione mondiale di plastica ha raggiunto circa 200 milioni di tonnellate/anno. Non a caso, l’avvento delle materie plastiche ha inciso sui comportamenti e le abitudini quotidiane di ognuno di noi. In tutti i  Paesi ha permesso lo sviluppo di importanti settori tecnologici e di servizio come i trasporti, le comunicazioni, l’elettronica e l’informatica. Si pensi alla sostituzione sempre maggiore di materiali come la carta ed i metalli nei settori dell’imballaggio e dell’edilizia. D’altro canto, con il crescere di una nuova coscienza ambientale, l’opinione pubblica ha avuto modo di valutarne l’impatto sull’ambiente.

Lentamente stiamo affogando in un mondo di plastiche. In alcune zone del mondo l’inquinamento ha raggiunto dei livelli tanto drammatici che gli abitanti stanno cercando di conviverci adattando il loro modo di vivere, utilizzando questi materiali in uno scenario che richiama film futuristici. Non parlo di riciclaggio, che tutti auspichiamo, ma di impiego dei rifiuti quasi fossero prodotti naturali. La situazione è decisamente preoccupante e isole di plastiche, createsi a causa delle correnti marine, si stanno allargando, riducendo i livelli di plancton nelle acque e disseminando sostanze tossiche nei mari di tutto il mondo. Non possiamo più aspettare che qualcuno faccia qualcosa per noi.

Una successo di oltre 150 anni
La storia della plastica cominciò tra il 1861 e il 1862, quando un chimico inglese, Alexander Parkes, studiando il nitrato di cellulosa, brevettò il primo materiale plastico semi-sintetico che battezza Parkesine (più noto come Xylonite).

Questa specie di celluloide fu utilizzata per la produzione di manici e scatole, ma anche di manufatti flessibili come i polsini e i colletti delle camicie. La prima vera affermazione del nuovo materiale si ebbe nel 1870 quando i fratelli statunitensi Hyatt brevettarono la formula della celluloide. Curiosamente il motivo della ricerca fu di trovare un materiale per sostituire il costoso e raro avorio usato per le  palle da biliardo.

Il successo fu travolgente, specialmente tra i dentisti che lo identificarono come materiale da impiegarsi per le impronte dentarie. Il problema era che la celluloide era ancora ricavata dal nitrato di cellulosa,  inadatto ad essere lavorato ad alta temperatura in quanto molto infiammabile. Il problema fu superato quando fu sviluppato l’acetato di cellulosa, ovvero una celluloide che era sufficientemente ignifuga per rinforzare e impermeabilizzare le ali e la fusoliera dei primi aeroplani o per produrre le pellicole cinematografiche. Ma fu all’inizio del secolo scorso che la  plastica si affermò sempre più prepotentemente nell’uso quotidiano. Nel 1907 il chimico belga Leo Baekeland ottenne la prima resina termoindurente di origine sintetica, che brevetterà nel 1910 con il nome dei Bakelite. Nel 1912 un chimico tedesco, Fritz Klatte, scoprì il processo per la produzione del polivinilcloruro (PVC) che avrà grandissimi sviluppi industriali solo molti anni dopo e, tristemente, è oggi una delle cause di emergenza ambientale più gravi. Un anno dopo, nel 1913, un  materiale flessibile, trasparente ed impermeabile trovò subito applicazione nel campo dell’imballaggio: lo Svizzero Jacques Edwin Brandenberger inventò il Cellophane, un materiale a base cellulosica che poteva essere prodotto in fogli sottilissimi e flessibili. Dagli anni ’30 e nella seconda guerra mondiale la “plastica” assunse una dimensione industriale: il petrolio divenne la “materia prima” da cui partire per la produzione industriale.

Nel 1935 a Wilmington, Delaware, un chimico statunitense, Wallace Carothers sintetizzò per primo il nylon (un poliammide); Carothers, morto suicida a soli 41 anni, non si rese conto che la sua invenzione avrebbe avuto nel futuro un’infinità di applicazioni, grazie alle sue caratteristiche funzionali nel campo dell’industria tessile: dalle calze da donna ai primi paracadute militari. In pratica segnò il passaggio dalle fibre naturali a quelle sintetiche.

Partendo dal lavoro di Carothers, Rex Whinfield e James Tennant Dickson nel 1941 brevettarono il polietilene tereftalato (PET) che ebbe grande successo nella produzione di fibre tessili artificiali ancora largamente utilizzate. Ma il PET, nel 1973, venne impiegato anche per realizzare le bottiglie usate come contenitori per le bevande gassate, diventandone in breve uno standard. Dopo la guerra nuove scoperte, nate nell’ambito delle ricerche militari, furono rese disponibili  in campo civile. Si pensi alle resine melammina-formaldeide (ricordate la “Fòrmica” che ricopriva molti tavoli e piani delle cucine), che permisero la produzione di laminati per l’arredamento e di stampare stoviglie a basso prezzo. Quegli stessi anni furono segnati dall’ascesa del Polietilene che, sfruttando il suo più elevato punto di fusione, permise applicazioni sino ad allora impensabili, e soprattuto la scoperta nel 1954 di un ingegnere chimico italiano, Giulio Natta, del Polipropilene isotattico che sarà prodotto industrialmente dal 1957 col marchio “Moplen”.

Giulio Natta,  per questa sua invenzione, ricevette il premio Nobel ma soprattutto rivoluzionò le dotazioni delle case di tutto il mondo. I decenni successivi sono quelli della grande crescita tecnologica, della progressiva affermazione per applicazioni sempre più sofisticate ed impensabili, grazie allo sviluppo dei “tecnopolimeri” come il polimetilpentene (TPX) utilizzato soprattutto per la produzione di articoli per i laboratori clinici, resistente alla sterilizzazione e con una perfetta trasparenza e di  resine termoindurenti che non si alterano anche se sottoposte per periodi lunghi a temperature di 300°C. I vantaggi di questi materiali sono evidenti: leggeri, chimicamente inerti, versatili e quindi impiegabili in disparati settori. Inoltre, fattore non trascurabile, sono facilmente lavorabili con bassi consumi di energia. A ragione potremmo indicare nella plastica l’elemento industriale principe del XX secolo.

Ma le plastiche offrono solo vantaggi?
Se da un punto di vista industriale esse forniscono dei vantaggi straordinari dal lato ambientale il loro impatto e’ devastante. Esiste un punto ormai inderogabile: risolvere i problemi derivanti dal loro smaltimento che causano un inquinamento chimico continuo che avvelena gli esseri viventi. La plastica dispersa nell’ambiente non genera solo uno sgradevole danno paesaggistico ma un inquinamento dell’ecosistema persistente nel tempo a causa della natura quasi “indistruttibile” di questi materiali. I terreni ma anche le falde acquifere ed i mari raccolgono questi materiali che per le loro caratteristiche accumulano veleni e possono poi essere ingeriti dagli animali rilasciando nelle loro carni sostanze cancerogene estremamente nocive per la salute.

Perchè fanno male?

I metodi tradizionali per lo smaltimento dei rifiuti  non possono essere applicati alla plastica perché alcune materie plastiche quando bruciano producono gas nocivi (diossine) come purtroppo sappiamo a seguito del recente incidente della ECO X di Pomezia. Inoltre, quando bruciate, producono una notevole quantità di calore che si disperde nell’ambiente circostante causando un forte inquinamento termico.

Un altro problema, forse il maggiore, è la loro non biodegradabilità in tempi brevi. Esse possono permanere nell’ambiente per centinaia di anni e il periodo si allunga in mare dove la biodegrabilità è molto più lenta. La rimozione della plastica dagli oceani, per le sue quantità, non è purtroppo una opzione attualmente risolutiva ma solo palliativa; i ricercatori dell’Università dell’Oregon hanno stimato che per effettuare la pulizia dei mari ci vorrebbe una quantità di energia pari a 250 volte la massa di rifiuti attuale, con tempi biblici. Un processo naturale di biodegradazione richiederebbe tempi molto lunghi. Sebbene le plastiche di medie dimensioni, come i sacchetti di plastica, vengono colonizzati da batteri, essi non sembra siano in grado di biodegradarla completamente e le molecole di plastica possono passare dai batteri al plancton.

Il passaggio nella catena trofica fa si che pesci di grandi dimensioni come squali, tonni e pesce spada contengono quantità notevoli di molecole chimiche estremamente  dannose per l’organismo. Recenti studi hanno rivelato che le micro plastiche accumulano nelle loro porosità molte sostanze cancerogene. Non ultimo, ogni anno circa un milione di uccelli marini e migliaia di esemplari, fra mammiferi e tartarughe marine, muoiono in maniera atroce per l’ingestione di pezzi di plastica, in particolare quella trasparente dei sacchetti, che gli animali confondono con le meduse.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Biodegrabilita-dei-materiali-non-compostabili-1024x576.jpg

Ma che cosa vuol dire biodegradabilità?
La biodegradazione o degradazione biotica è una proprietà specifica di determinati materiali plastici per la quale il materiale polimerico sotto l’influenza di organismi viventi si decompone. Microrganismi come alcuni batteri, funghi e alghe riconoscono i polimeri come fonte di composti organici. In altri termini, questi polimeri biodegradabili sono il loro cibo e, sotto l’influenza di enzimi intracellulari ed extracellulari, il polimero degrada attraverso un processo di scissione della sua catena polimerica, l’ossidazione, etc. Il risultato di questo processo è la formazione di molecole sempre più piccole che entrano in un processo metabolico cellulare (come nel ciclo di Krebs), generando energia e trasformandosi in acqua, anidride carbonica, biomassa ed altri prodotti di base della decomposizione biotica. La cosa interessante è che questi prodotti non sono tossici e si trovano normalmente in natura e negli organismi viventi.

Il processo di biodegradabilità consente la trasformazione anche di materiali artificiali come la plastica in componenti naturali. Il problema è che i tempi di trasformazione sono importanti.

Premesso che la plastica non va demonizzata ma gestita, si deve partire da un’azione sociale per ridurne l’impatto ambientale attraverso meccanismi efficenti della raccolta differenziata ed il riutilizzo attraverso procedure di riciclo. In pratica si dovrebbe controllare il processo dalle prime fasi produttive, evitando la dispersione nell’ambiente dei prime (o sea beads, le palline plastiche che stanno invadendo le nostre spiagge e derivano da falle nel circuito di approvigionamento delle fabbriche), fino al fine vita. Sebbene siano in corso numerosi studi per migliorare i processi industriali, per sostituire le plastiche tradizionali con nuovi materiali sempre più degradabili, lo sforzo comune dovrebbe essere eco compatibile. Il riciclo dei rifiuti consente di recuperare milioni di tonnellate di plastica in tutto il mondo e di dargli una “seconda vita”, in alcuni casi ottenendo anche nuovi prodotti plastici; ad esempio da una bottiglia in PET si possono ricavare materiali per fabbricare abiti in pile, dalle plastiche dei flaconi di detersivo ottimi materiali isolanti per l’edilizia. Il problema è che la raccolta differenziata non è ancora sufficentemente efficiente.

Nel frattempo?
Nel frattempo, dobbiamo agire in maniera capillare. Possiamo fare molto per salvaguardare il nostro ambiente: raccolte differenziate, monitoraggio ambientale, interventi collettivi (ma anche singoli) di raccolta di materiali sulle spiagge e nell’ambiente, il recupero delle reti abbandonate (solo da parte di personale addestrato), rivolgendosi sempre alle amministrazioni locali preposte per la consegna dei materiali raccolti. Non ultimo collaborare con la Guardia Costiera denunciando prontamente situazioni di degrado ambientale. Non aspettate che qualcuno faccia qualcosa per voi … fatelo.

Un altro fattore importantissimo è l’educazione ambientale. Da tempo chiediamo che diventi obbligatoria nelle scuole di ogni ordine e grado e non lasciata alla sensibilità dei dirigenti scolastici. Abbiamo migliaia di laureati in Scienze biologiche e Naturali in grado di istruire i nostri ragazzi … perchè non approfittarne? Non ultimo educare anche personalmente chi vi circonda all’importanza di ridurre l’uso delle plastiche e di effettuare con consapevolezza e coscienza la raccolta differenziata dei rifiuti. Uno sforzo in questo senso potrebbe far raggiungere in tempi brevi risultati apprezzabili.

In sintesi si può fare molto … basta volerlo.  Per tutto il 2017 torneremo con frequenza periodica su questi argomenti. E’ una battaglia che possiamo vincere insieme.

Andrea Mucedola

in anteprima microplastiche da wikipedia  – public domain 
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