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livello elementare
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ARGOMENTO: GEOPOLITICA
PERIODO: XXI SECOLO
AREA: STATI UNITI
parole chiave: Stati Uniti, politica degli armamenti
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Donald Trump ha promesso in campagna elettorale che sarà lui a guidare la più grande marina del mondo, consolidando una flotta di 350 navi militari. Il piano, se approvato ripristinerà i livelli operativi della US Navy del 1998, con la creazione di decine di migliaia di nuovi posti di lavoro nella Navy ma anche nei cantieri che dovrebbero godere di una nuova spinta commerciale.
Uno scenario internazionale inquietante
Dal punto di vista della politica internazionale, Trump ha più volte dichiarato che la Cina e la Corea del Nord mantengono un comportamento pericoloso e aggressivo, di fatto creando gravi situazioni di instabilità.
L’avversario storico, la Russia, dopo un periodo di latenza ha recentemente sfidato apertamente la politica statunitense inviando le sue navi negli oceani e battendo sul traguardo l’America di Obama in Siria. Poi abbiamo l’Iran con il suo programma nucleare e le reti terroristiche globali che costituiscono minacce alla stabilità internazionale, talvolta con commistioni con le organizzazioni criminali.
La visione militare di Trump è di rivedere la struttura delle Forze Armate americane cercando di coinvolgere sempre di più gli Alleati (ma questa non è un novità, essendo già stato richiesto in passato anche dai suoi predecessori) che, secondo il presidente statunitense dovrebbero investire di più per la sicurezza globale (almeno il 2% del PIL). Secondo Trump, la Marina statunitense, per far fronte alle nuove minacce, dovrà dotarsi di una flotta molto più grande dell’attuale (che ha un tetto programmatico di 308 navi) per arrivare fino a 350 unità. Quindi investire in navi moderne, con tecnologie allo stato dell’arte ed adatte per il mantenimento della pace a livello mondiale, dando nel contempo un forte segnale di risveglio all’industria bellica.
Nuovi e vecchi programmi
Tra i programmi il finanziamento per la modernizzazione di un numero significativo di incrociatori classe Ticonderoga che l’amministrazione Obama aveva messo da parte per anni, aspettando il raggiungimento di una non chiara maggiore maturità dello stato dell’arte. Tale programma, che interessa ventidue incrociatori, è stata definita da Trump “il fondamento della nostra capacità di difesa missilistica in Europa, Asia e Medio Oriente”. Ovviamente tutto questo ha un costo importante; l’aggiornamento di ogni nave con il più recente sistema Aegis Ballistic Missile Defense costerebbe circa 220 milioni di dollari. In realtà, sotto la Presidenza di Obama, undici incrociatori erano stati già ammodernati e di altri quattro era previsto l’ammodernamento graduale con un rapporto di due navi all’anno, ma questo potenziale fu considerato non sufficiente dagli ammiragli. Nel suo programma Trump ha inoltre annunciato che metterà in acquisizione nuovi incrociatori per completare il suo schieramento. Sembrerebbe anche che la US Navy abbia avviato i contratti per costruire due nuovi cacciatorpediniere all’anno, presso i cantieri Ingalls Shipbuilding, Mississippi, e di Bath Iron Works nel Maine.
Un ambizioso programma che richiederà l’autorizzazione del Congresso per lo sfondamento degli attuali tetti di spesa stabiliti fino al 2023. In particolare, il piano di Trump prevede anche un piano per investire significativamente in nuovi sottomarini nucleari, iniziando un programma di costruzione di tre sottomarini d’attacco classe Virginia all’anno. Per quanto concerne cacciatorpedinieri si tratterebbe di altre unità della classe Arleigh Burke. Questo porterà una boccata di ossigeno per i cantieri navali e indubbi vantaggi per le navi da guerra esistenti che potranno finalmente accedere alle manutenzioni necessarie, differite negli ultimi anni da Obama a causa dei tagli di bilancio.
Questo richiederà una collaborazione significativa con la lobby industriale della Difesa che è stata messa a dura prova da anni di tagli significativi alla cantieristica e delle riparazioni navali da parte di Obama. L’espansione della US Navy entro il 2030 è un’idea che piace sia all’attuale amministrazione, che sta cercando di portare la flotta a 350 navi, sia ai conservatori che da sempre hanno sostenuto l’idea di una flotta molto più grande per assicurare gli interessi americani negli oceani. Sebbene la pianificazione degli armamenti navali richiede molto di più di accordi fra le lobby, il potere contrattuale del nuovo Presidente ha portato l’establishment a rivalutare gli investimenti nel settore navale.
Si stima che la nuova generazione di sottomarini missili balistici possa avere un costo di almeno 5 miliardi di dollari per ogni scafo. Questi sommergibili hanno un significato strategico importante che si era assopito nei primi anni del terzo millennio a causa di una valutazione forse fin troppo ottimistica della minaccia esterna, considerata di minor impatto rispetto agli anni della Guerra Fredda, che aveva comportato un rallentamento delle costruzioni.
Altro punto interessante emerso è la riapertura del progetto delle Littoral Combat Ship (LCS), unità militari di superficie con compiti multiruolo, realizzate sul concetto operativo della modularità. Il progetto iniziale intendeva costruire, nell’arco di un trentennio, settanta di queste unità ma, contro le più rosee aspettative, l’aumento dei costi Sali a più di tre volte degli iniziali 220 milioni di dollari. Emersero inoltre altri problemi tecnici ed il requisito fu infine ridotto dall’ammiraglio Mullen a 55 unità.
La caratteristica principale del progetto è la modularità dei sistemi che prevede l’installazione di “pacchetti di missione” precostituiti a seconda delle esigenze, limitando quindi i costi di ogni unità e i suoi ingombri a bordo. Con tale sistema una LCS può di volta in volta assumere missioni di sminamento, dragaggio, lotta ASW, ASUW, AAW e di tiro contro costa in base ai sistemi impiegati a bordo. Queste unità dovrebbero imbarcare un equipaggio ridotto, ritagliato a seconda della missione, da un minimo di 40 ad un massimo di 75 tra ufficiali e marinai. Questo è, a mio avviso, un punto debole sulla loro effettiva capacità.
Non basta la tecnologia per poter svolgere missioni complesse … ci vogliono uomini altamente addestrati nelle componenti specialistiche, fattore non sempre risolto nell’ambito della US Navy.
Il progetto, nel 2004, venne assegnato a due consorzi guidati rispettivamente da Lockheed Martin (con la partecipazione di Fincantieri e Marinette Marine) e dalla General Dynamics, comprendente tra gli altri anche la Northrop Grumman, per la realizzazione di due prototipi con diverse caratteristiche, la LCS-1 USS Freedom e la LCS-2 USS Independence.
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Come accennato i costi andarono oltre due volte e mezzo quanto previsto, causando un rallentamento del progetto. La volontà del neo Presidente è interessante. Le sue dichiarazioni di protezionismo dell’industria nazionale statunitense potrebbero tagliar fuori Fincantieri a fronte di costi forse maggiori per i progetti in corso. D’altro lato Trump può contare come Segretario alla Difesa sul generale Mattis, uomo di grande esperienza sia nel campo operativo che nella politica degli armamenti. Ma anche un Uomo integro, che non scende a compromessi.
La USN potrebbe anche accelerare la produzione di dodici nuove portaerei centro il 2030. Per quanto concerne il personale Trump mira ad aumentare il fattore umano dagli attuali 330.000 marinai a più di 380.000. Una politica innovativa che si scontra con quella reganiana del riutilizzo di vecchie unità, ammodernate, voluta per raggiungere l’obbiettivo previsto dal progetto 600-ships. Ricorderete tutti le corazzate della classe Iowa della Seconda Guerra Mondiale, rimodernate non senza molte polemiche ed impiegate anche nella guerra del Golfo.
La classe subì vari aggiornamenti tecnici, sia nell’armamento che nell’elettronica, passando dalle apparecchiature analogiche della seconda guerra mondiale a data link digitali con vari stadi di perfezionamento dei radar di scoperta e di tiro, ai sistemi di comunicazione satellitare ed alle rampe di lancio dei missili Tomahawk (32) in versione navale. Inoltre furono imbarcati 16 sistemi missilistici antinave Harpoon a corredo dei possenti nove cannoni da 406/50 mm. e i 12 da 127/38mm. Le navi furono dotate di una piazzola di atterraggio per un elicottero di grandi dimensioni a poppa estrema dietro la torre poppiera da 406/50mm.
In sintesi, la politica navale trumpiana sembra scontrarsi con le politiche degli ultimi Presidenti statunitensi, risultate sempre molto “land centric” ed attendiste. La componente navale fu erroneamente tralasciata se non abbandonata, non considerando che le navi, per loro natura, devono essere costantemente manutenute e gli equipaggi addestrati al fine di mantenerne l’efficienza bellica. In questo Trump sembra, per il momento, avere idee più chiare.
Commento
Il programma di sviluppo della US Navy è certamente da considerarsi un importante passo per gli Stati Uniti per raggiungere una credibilità marittima globale maggiore. La sua fattibilità dal punto di vista economico è però discutibile a meno di importanti tagli alle attività di presenza o ai contributi nelle Alleanze. Di fatto Trump conta sull’autorizzazione del Senato che non è però scontata. Tutto andrà di pari passo, come da manuale, con la politica estera che Trump vorrà portare avanti, sia con gli alleati che con i partner orientali. Attualmente quasi i due terzi della flotta americana si trova nel Pacifico e la necessità di ritagliare i giusti assetti navali forzerà le scelte strategiche nelle nuove costruzioni. La Quinta flotta permane nell’Oceano Indiano e nel Golfo, altra area in rapida evoluzione in cui la US Navy supporta le operazioni in Afghanistan e mantiene una deterrenza con l’Iran.
Sembra che la Terza Flotta della USN dislocherà più navi in Asia orientale per operare al di fuori del normale teatro a fianco della Settima Flotta, di base in Giappone, una mossa che arriva in un momento di accresciute tensioni con la Cina per i noti problemi nel Mar Cinese Meridionale rivendicato in gran parte dal Dragone (nine dash line), che interessano oltre 5 miliardi di dollari di merci che ogni anno passano attraverso quelle aree.
Le Filippine, Vietnam, Malaysia, Taiwan e Brunei hanno richieste similari che hanno trovato una giustificazione internazionale, e vedono ovviamente negli Stati Uniti un alleato importante. Inutile dire che la Cina vede nelle manovre statunitensi nel Mar Cinese Meridionale una provocazione alla loro presunta giurisdizione, creando di fatto un impatto distruttivo sulla pace e la stabilità regionale.
Un altro fattore di destabilizzazione importante è la Corea del Nord. Pyongyang ha portato a termine un nuovo test missilistico, lanciando un razzo che ha viaggiato per circa 500 chilometri prima di cadere nel mar del Giappone. Si tratta probabilmente di un missile a medio raggio della classe Musudan ma, di fatto, è il primo test missilistico di Pyongyang da quando Donald Trump è arrivato alla Casa Bianca.
Il lancio è stato visto come la prima mossa di Pyongyang per misurare la risposta dell’amministrazione di Donald Trump. L’evento ha preoccupato non poco gli USA, il Giappone e, naturalmente, la Corea del Sud che hanno chiesto la convocazione d’urgenza del Consiglio di Sicurezza dell’ONU per trattare le ”contromisure” in risposta ad una violazione degli obblighi fissati dalle risoluzioni varate in passato in risposta ai lanci balistici e ai test nucleari nordcoreani. Anche per Pechino questi test balistici della Corea del Nord “violano le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza Onu” ma invita tutte le parti coinvolte ad “esercitare moderazione” ed a “evitare provocazioni reciproche” al fine di tutelare pace e stabilità nella penisola coreana. Insomma una gatta da pelare non da poco che richiederà una presenza importante della US Navy in quell’area.
La Marina statunitense deve quindi rivalutare oculatamente il suo impegno in termini di investimenti per ottenere una flotta adeguata alle esigenze strategiche dei prossimi anni, che potrebbero essere ancora più complesse con l’entrata in gioco di un nuovo attore nell’area, l’India.
Andrea Mucedola
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ammiraglio della Marina Militare Italiana (riserva), è laureato in Scienze Marittime della Difesa presso l’Università di Pisa ed in Scienze Politiche cum laude all’Università di Trieste. Analista di Maritime Security, collabora con numerosi Centri di studi e analisi geopolitici italiani ed internazionali. È docente di cartografia e geodesia applicata ai rilievi in mare presso l’I.S.S.D.. Nel 2019, ha ricevuto il Tridente d’oro dell’Accademia delle Scienze e Tecniche Subacquee per la divulgazione della cultura del mare. Fa parte del Comitato scientifico della Fondazione Atlantide e della Scuola internazionale Subacquei scientifici (ISSD – AIOSS).
Credo che attualmente la situazioni in Estremo Oriente sia particolarmente fluida. Le Filippine, tradizionalmente entro l’area di influenza americana, hanno dato segni di instabilità (resta da vedere se fosse contro l’Amministrazione Obama o contro gli USA) e c’è l’ipotesi che is orienti pro-Russia. Il Vietnam attualmente è basato su tecnologia, addestramento ed educazione russi, ma dal punto di vista tecnologico ha aperto un po’ ad occidente (Francia e Olanda -da verificare-) e forse la recente visita di Obama potrebbe sortire qualcosa; è però uno stato molto chiuso (p.es. i componenti delle FFAA non si possono recare il licenza all’estero). L’Indonesia, a parte qualche instabilità interna, sembra abbastanza nella sfera di influenza Australiana. Singapore, diciamo che è occidentale, e si sta dotando di un apparato difesa moderno… ma dubito che abbia una grande sostenibilità logistica: credo che abbia bisogno di legami internazionali forti. Della Cina si sa: sta attuando una politica di espansione a piccoli passi, cercando di non dare troppo nell’occhio, ma nel Mare Cinese Meridionale si è un po’ ‘sbilanciata”. Rimangono come alleati solidi il Giappone e la Corea del Sud.