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Quello che tutti gli utenti di rebreather dovrebbero sapere per non morire di Luca “dr Deep” Lucarini

tempo di lettura: 16 minuti

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livello medio
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ARGOMENTO: SUBACQUEA
PERIODO: ODIERNO
AREA: MEDICINA IPERBARICA
parole chiave: tecnica, rebreather, didattica, subacquea, miscele
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Ripubblico con piacere un interessante articolo apparso nel 2011 sulla Rivista MARE nr. 22 di Luca Lucarini, meglio conosciuto come Dr. Deep. L’articolo volle segnalare alcuni aspetti della sicurezza nell’uso dei rebreather che, per cause diverse, avevano causato incidenti fatali ai neo utilizzatori.
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L’articolo, scritto in maniera diretta, è tecnicamente molto interessante e sicuramente offre spunti per una discussione sull’argomento. Il set point di 1,3 della ppO2, spesso usato dai subacquei sportivi per abbreviare la decompressione è, come suggeriva il direttore Toja della rivista MARE, ” un’abitudine insana” che può comportare rischi inutili. In campo militare viene utilizzata una ppO2 di 0,7 – 0,9 che certamente comporta un’allungamento della decompressione ma sembra offrire maggiori vantaggi in termini di sicurezza.

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Quello che tutti gli utenti di rebreather dovrebbero sapere per non morire
Morire qui non è da me, morire va bene ma non per te! (Renato Zero). È la canzone che preferisco cantare nei corrugati quando mi immergo con quell’essere immondo del mio rebreather. Le mie immersioni si svolgono prevalentemente in solitario e quindi anche se la mia voce poco intonata viene ancor più deformata dall’elio nessuno tra gli abitanti dei fondali marini sembra aversene a male. La percezione del rischio viene vissuta dai meno esperti con l’equazione probabilità per esito per fattore di indignazione. I rebreather non fanno eccezione e di conseguenza vengono considerati alla stessa stregua dello squalo bianco che notoriamente fa meno vittime delle api. Ciò non toglie che specie negli ultimi periodi c’è stato un netto aumento delle morti da parte di coloro che utilizzavano i rebreather e, secondo talune statistiche direi un po’ manipolate, l’eCCR (rebreather a circuito chiuso elettronico) sarebbe 900 volte più pericoloso del circuito aperto (ARA). 

Inoltre, bisogna sottolineare che ci troviamo di fronte ad un periodo critico (n.d.r. l’articolo fu scritto nel 2011) dove si sta cercando di aprire le porte per un utilizzo del rebreather a livello di subacquea ricreativa. Insomma, siamo forse in procinto di vedere innescata una miscela esplosiva. Il rebreather è un LSS ovvero un Life Support System. Un rebreather ben concepito e ben realizzato fornisce all’utilizzatore tutte le risorse necessarie a sopravvivere. La preparazione tecnica permette di riconoscere, intercettare e risolvere i problemi che possono insorgere in un rebreather. Il bail-out costituisce un’ulteriore sicurezza. In teoria siamo di fronte ad un sistema blindato a prova di errore. A questo punto è necessario analizzare i punti chiave che secondo il mio parere risultano essere le criticità del sistema Uomo/Rebreather.

Tralasciando il discorso attitudine, ovvero le reali capacità psico-motorie dell’individuo che dovrebbe utilizzare il rebreather, vorrei sottolineare le scarse conoscenze che molti rebreatheristi (tra cui diversi istruttori) hanno sul funzionamento dei rebreather e sui fenomeni fisiologici che sono coinvolti nel loro utilizzo. Richard Pyle sostiene che nel percorso formativo di un subacqueo che utilizza il rebreather esiste un periodo che egli definisce “Window of Death“, che si può inquadrare intorno alle 40 ore di utilizzo di tali apparecchiature, dove il rischio d’incorrere in problemi con esito fatale risulta essere statisticamente più elevato. In tale lasso temporale si verifica quella che in gergo viene definita over confidence ovvero la presunzione che ormai si abbiano le conoscenze sufficienti per gestire al meglio l’utilizzo del rebreather. Evidentemente non è così. In relazione a questo si dovrebbe pretendere che le agenzie didattiche in accordo con le aziende costruttrici prolunghino la durata dei corsi formativi fino ad un numero di ore spese in acqua che si avvicini al periodo della “Window of Death”. Commercialmente ciò sarebbe ovviamente disastroso!

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Un altro aspetto interessante, anche da un punto di vista sociologico, è costituito dalle motivazioni per cui un sub ha la necessita di dover ricorrere all’uso del rebreather.  Escludendo una ristretta cerchia di speleosub, profondisti ed esploratori, la maggior parte di coloro che usano il rebreather in realtà non ne avrebbe assolutamente bisogno.  Vedere durante i week end dei sub che si immergono con dei reb a 40 – 60 m con profili ridicoli dove un bibomobola da 10 + 10 sarebbe quasi sprecato, è già di per se fonte di perplessità, che diventa ilarità quando tali subacquei si giustificano sostenendo che con il reb in quel tipo di immersioni si accorcia la deco anche di 30 minuti. Al contempo c’è però da rilevare che molte di queste stesse persone durante la settimana sono recluse in uffici o fabbriche del cavolo per intere giornate e quando escono vengono catapultate dentro le loro lattine con le ruote in un traffico alienante sopportando il tutto senza fiatare ma, nel momento in cui dovrebbero divertirsi di più, ovvero sott’acqua, vogliono fare di tutto per uscirne prima. L’altra cosa che non riesco a concepire è il fatto che questa tipologia di persone ha la tendenza ad avvicinarsi e a comprare tutto ciò che può essere assimilato ad attrezzature in stile militare nel tentativo di assomigliare quanto più possibile ad un incursore della Marina Militare. Quanto più è nero e pericoloso tanto più attira questi sub.

Inoltre, i rebreatheristi hanno la tendenza a riunirsi, a disdegnare chi non la pensa allo stesso modo, a formare forum su internet, insomma a fare “setta”. L’obnubilamento della capacità di giudizio è tipico di colui che entra a far parte di queste sette e comincia a sentenziare su internet e a farsi sostenitore dei prodotti che utilizza la sua setta con l’intima convinzione della giustezza delle sue asserzioni. Basti pensare al successo commerciale dei braccialetti che dovrebbero servire a migliorare l’equilibrio. Molti dei test effettuati con questi braccialetti ottengono dei risultati (falsi) positivi, grazie ad un meccanismo psicologico che coinvolge tramite suggestione più l’inconsapevole tester di quanto non influenzi il soggetto testato. Alcuni modelli di reb, gav, pinne, mute ed erogatori hanno lo stesso effetto sulle labili menti di alcuni adepti delle sette.

Spesso la differenza tra la vita e la morte non dipende dalla concezione del rebreather ma dall’attitudine del subacqueo. Come per il circuito aperto, la maggior parte delle morti risultano essere secondarie a palesi errori dell’utilizzatore.

È altrettanto vero che un LSS ideale dovrebbe ….. essere “stupid proof”!
A chi non è mai capitato di scendere in acqua dimenticandosi della zavorra o del computer? La domanda che ogni rebreatherista dovrebbe farsi prima di ogni immersione è la seguente: in tutta onestà sono oggi preparato a porre in gioco la mia vita puntando sulle mie conoscenze e abilità? La cosa sconvolgente è che talvolta a morire sono quelli che vengono considerati i più bravi, quelli che erano di esempio agli altri, quelli da cui si poteva solo imparare; allora c’è qualcosa che non quadra, che non ci dicono o semplicemente lo stato dell’arte rebreather (reb) non è maturato a sufficienza.  In questa sede il mio obiettivo non è certamente quello di criticare le filosofie dei loop dei diversi reb in commercio, oppure analizzare come ovviare ad eventuali problemi che il reb può presentare sott’acqua: ci sono bravi istruttori (molto pochi!) e buoni manuali per consigliare come e quale rebreather è meglio utilizzare. Vorrei invece tentare di evidenziare quei lati oscuri che lasciano senza parole i medici legali e i periti che devono dare risposta alle famiglie in attesa di capire perché i loro cari sono deceduti anche se il rebreather non ha dato segni di malfunzionamento. Personalmente ritengo che ci siano già i presupposti e le conoscenze sufficienti per capire il perché di molte morti “immeritate” da o con il rebreather. Purtroppo queste conoscenze sono per lo più nascoste nei meandri di PubMed ovvero tra una moltitudine di pubblicazioni mediche mondiali e che solo sporadicamente trattano di medicina iperbarica ma più frequentemente di altre branche della medicina da dove però si possono estrapolare delle conoscenze fisiologiche adattabili all’uso del rebreather. Partendo da un’attenta analisi di pubblicazioni che magari trattavano di bronco-pneumopatie ostruttive oppure dove i soggetti studiati erano semplicemente topi o capre e, con l’aiuto non trascurabile della mia ormai lunga esperienza subacquea, ho formulato delle ipotesi.

La CO2: qual è il suo ruolo?
Non l’avevo considerato! È assolutamente sbagliato assimilare la CO2 come una sostanza venefica al pari dell’arsenico nell’acqua per cui sarebbe opportuno che non ve ne fosse traccia nel nostro organismo; in pratica non è vero che più ne riusciamo ad eliminare e più ci sentiamo in salute. Ci sono tutta una serie di teorie dove si sostiene che una giusta quantità di anidride carbonica svolga un ruolo chiave per il corretto metabolismo cellulare. Basti pensare a tutti i concetti del metodo Buteyko che sta facendo dei proseliti in tutto il mondo anche in chiave sportiva oltre che di wellness. 
Ci sono ricerche scientifiche che dimostrano che l’ossigenoterapia normobarica per alcune patologie polmonari risulta più efficace se nella miscela respiratoria insieme all’ossigeno si aggiunge una piccola quantità di CO2.

Tornando a cose subacquee è interessante ricordare che il sesso della Bonellia viridis (quello strano animale marino di color verde che possiamo vedere a volte nascosto fra i sassi del fondo) è determinato dalla maggiore o minore presenza di CO2. Chi s’interessa di rebreather e di full face mask si sarà di sicuro imbattuto per errore in siti dove compaiono procaci ragazze che indossano mute in LaTex e appunto maschere gran facciali.  Per i meno pervertiti è quindi necessario spiegare che tra i disturbi psicosessuali esiste l’asfissia autoerotica! Spesso, dopo immersioni in condizioni non ottimali e dopo aver trasportato pesi allucinanti su mezzi ondeggianti, si ha comunque l’impressione di aver fatto una bella esperienza.

Vi siete mai chiesti il perché? 
Durante l’attività sportiva intensa, il sangue, anche dopo aver effettuato un passaggio attraverso i polmoni, resta ancora in parte carico di CO2 e relativamente povero di O2. Tale aumento ematico di anidride carbonica viene captato dai chemiorecettori a livello ipotalamico-ipofisario e induce nell’ipofisi un aumento della sintesi di beta-endorfine e di ACTH. 
Sarebbe bello capire dove finisce l’intossicazione da CO2 e inizia la narcosi da azoto: personalmente ho potuto constatare che i sintomi sono spesso sovrapponibili. Come sostiene Tom Mount sarebbe opportuno avvicinarsi alla conoscenza degli 8 metodi di respirazione Tai-Chi-Chuan ed in particolare della “respirazione purificante“, dove l’espirazione dura molto più dell’inspirazione! Nel 1878 P. Bert dimostrò l’autointossicazione di animali da parte della loro CO2 in ambienti iperossigenati.

È importante ricordare l’effetto Haldane
(Ndr: L’effetto Haldane prevede che il legame dell’O2 all’emoglobina renda il sangue più acido, e quindi faciliti lo spostamento dell’anidride carbonica dal sangue agli alveoli. L’emoglobina resa più acida rende più difficile il legame con l’anidride carbonica (carbamminoemoglobina), liberando maggiormente CO2). A livello dei tessuti produciamo normalmente 40 ml/l di CO2 che è circa 1/10 della CO2 presente nel sangue (in massima parte come HCO3-) – L’emoglobina deossigenata (Hb) lega meglio la CO2 formando composti carboammino-emoglobinici (effetto Haldane). 
L’effetto Haldane è responsabile di circa la metà dell’anidride carbonica che viene scambiata a livello dei tessuti e trasportata nel sangue.  In pratica, l’affinità dell’anidride carbonica (CO2) per l’emoglobina dipende dallo stato di ossigenazione della stessa. A livello tissutale: l’Hb deossigenata lega meglio la CO2 (alta affinità) formando composti carboammino-emoglobinici (HbCO2), a livello alveolare la formazione di HbO2 riduce l’affinità della CO2 e H+ per l’Hb (bassa affinità) così la CO2 che si libera viene scambiata con l’alveolo ed espulsa. Ora deve risultare chiaro che, quando siamo in superficie, la presenza della giusta piccola quantità di CO2 nei vari distretti del nostro organismo, è perfettamente fisiologica, ma durante l’immersione la possibilità che questa piccola percentuale vari e diventi mortale è palese.

Ipotesi di CO2 hit da rebreather
Immaginiamo ora il classico subacqueo che si mette sulle spalle il rebreather e si accinge a fare un’immersione che può discostarsi per certi versi da quella in circuito aperto (CA) dove al variare della profondità inevitabilmente corrisponderà un aumento o una diminuzione della pPO2. Con il CCR ciò non accade e la pPO2 rimane stabile e quanto più alta si riesce a mantenere tanto meno decompressione ci indicheranno i software decompressivi.

Bubble check effettuato il nostro sub scende con discesa con set point (S.P.) 0.7; talvolta i sub hanno difficoltà a mantenere il S.P. in relazione alla percentuale di ossigeno del diluente. Il ritmo respiratorio scende in relazione all’iperossia (Lambertsen) ed all’insensato background del circuito aperto. Ancora nei diving ci si vanta di uscire dall’acqua con più aria degli altri! L’ossigeno determina un decremento della frequenza e della gittata cardiaca. Durante la discesa lo scrubber viene raffreddato dall’immissione di elio (poco rilevante). L’iperossia comporta una vasocostrizione periferica specie al livello del SNC.

Aumentando il S.P. ci avviciniamo a quella condizione dove l’ossigeno fisicamente disciolto diventa sufficiente a mantenere le funzioni vitali.
In questa condizione non c’è deossigenazione dell’emoglobina e quindi nei tessuti c’è minor rimozione di CO2 da parte dell’emoglobina proprio quando sul fondo il sub diventa operativo e il suo metabolismo si impenna!
Il sub arrivato sul fondo imposta il S.P. a 1.3. Recenti studi (Leite MS 2010) hanno evidenziato che già a 1.4 si possono avere alterazioni strutturali del glomo carotideo (edema intracellulare e perossidazione dei lipidi) con conseguente deviazione del flusso ematico intraglomico. Risultato, minor ventilazione e CO2 che non viene rimossa!

L’ipoventilazione (culturale ed indotta) crea una CO2 retention (non certo ipossia con PO2 di 1.3) che va a colmare il buffer del sistema tampone dell’anidrasi carbonica creando acidosi. Il subacqueo ancora non si accorge di nulla in quanto è stato dimostrato che un sub può tollerare percentuali di CO2 del 2% per 15 minuti senza avvedersene; ma la coperta è ormai diventata irrimediabilmente corta!  A questo punto il nostro sub sta faticando sul fondo e “lavorando duro” ci sarà contemporaneamente anche un aumento del lavoro respiratorio (WOB). Ciò che risulta paradossale, è che si è visto che se il WOB (Work Of Breathing – lavoro respiratorio) si mantiene basso anche un contenuto di CO2 del 4% del gas ventilato non affligge di molto le performance individuali. Per contro anche con percentuali di CO2 inferiori c’è un forte impatto negativo in caso di incremento delle resistenze respiratorie.

Le performance cognitive del subacqueo sono il punto critico. La catastrofe è direttamente dipendente dalla CO2. Ci sono esperimenti che sono stati effettuati con (rebreather a circuito chiuso) , dove si evince il ruolo chiave della CO2 nel potenziamento logaritmico della narcosi da profondità. Normalmente, ad aumentati livelli di CO2 c’è una risposta con l’aumento del ritmo respiratorio. Alcuni individui non rispondono adeguatamente e vengono definiti “CO2 retainers”. Esposizioni croniche alla CO2 rendono alcune persone tolleranti alla CO2 e si verifica una sorta di acclimatazione. I centri respiratori una volta diventati progressivamente tolleranti agli alti livelli di CO2 saranno stimolati dalla sola ipossiemia che non si avrà mai in considerazione del set point a 1.3 o più.

Nei casi di pazienti con COPD (chronic obstructive pulmonary disease) si rileva una sindrome da narcosi di CO2! Questa Sindrome viene considerata potenzialmente letale anche per queste persone che trascorrono gran parte della loro giornata a letto attaccate al tubo dell’ossigeno! La fisiologia umana si trova spiazzata da un evento che filogeneticamente ed ontogeneticamente risulta ossimorico. Infatti l’organismo è in grado di sopportare bassi livelli di ossigeno se c’è contemporaneamente un elevato livello di CO2: senza elevata CO2 (0.07) sul Monte Everest una persona va in black out in 10-50 secondi. 
Un black out ipossico in apnea si verifica solamente a 0.03 /0.05 bar di ppO grazie all’elevata CO2! Chi sono questi subacquei retainers? In modo ovvio si va ad individuarli negli Hard Hat (Navy Experimental Diving Unit), negli apneisti, nei sommergibilisti che fanno esercitazioni per il submarine escape e nei subacquei esperti (pausa respiratoria). Tutti i sopra citati hanno la tendenza a ritenere CO2 rispetto alla media, anche se non esiste una linea di demarcazione ben precisa. Comunque la “sleep apnea” risulta di gran lunga la causa più comune di acclimatazione alla CO2! Ricercatori della Israel Naval Medical Institute hanno dimostrato che attraverso un adeguato allenamento si riesce a migliorare la capacità dei subacquei e a riconoscere situazioni di ipercapnia e concludono così:

“We conclude that CO2 recognition training improves the diver’s capability to detect CO2. We suggest that a diver who is both a poor CO2 detector and a CO2 retainer will be prone to CNS-oxygen toxicity“.

Thalmann (USN) sostiene che le sensazioni di “fame d’aria”, pur se allenate, in realtà sono inaffidabili, ed il primo segno di ipercapnia potrebbe essere la perdita di coscienza.  Conferma inoltre che la fame d’aria può essere dovuta sia a livelli di ossigeno bassi che ad alti livelli di CO2. In immersione ed in particolare con il rebreather, il livello di ossigeno è sempre alto, eliminando la più potente causa ipossica, lasciando solo la CO2 come possibile stimolo. La CO2 ha effetti narcotici e deprime la capacità di giudizio, al punto che diminuisce anche la sensazione di difficoltà respiratoria provocata dalla dispnea. In queste condizioni il subacqueo potrebbe continuare ad operare fintanto che la perdita di coscienza è il primo sintomo a comparire.

Eravamo rimasti al momento in cui il subacqueo con rebreather aveva iniziato a lavorare duro sul fondo
Se il sub non è un CO2 retainer inizierà a adattare il suo ritmo respiratorio all’ipercapnia seppur con ritardo e in modo mitigato dai fenomeni prima descritti. Ora però il lavoro si fa ancora più duro e si supera la soglia aerobica iniziando così a produrre acido lattico (acidosi metabolica), ma gli alti livelli di O2 inficiano una corretta risposta dei chemiorecettori. 
A questo punto all’iniziale vasocostrizione ci sarà un effetto rimbalzo provocato dall’enorme quantità di CO2 che si è accumulata a livello tissutale e che d’improvviso viene “vomitata” nel torrente circolatorio. Si aggiunga che sul fondo avremo anche la massima densità della nostra miscela respiratoria con innalzamento del lavoro respiratorio (WOB) (Bookspan). In passato in neuropsichiatria, in alternativa all’elettroshock, si utilizzava l’esposizione ad elevate concentrazioni di CO2 che portavano il paziente a convulsivare in tempi che andavano da 1 a 3 minuti. Con percentuali di CO2 del 20% può essere sufficiente un solo atto respiratorio per rendere un individuo mentalmente incapace. Sperimentalmente si è visto che dopo prolungate esposizioni ad elevatissime concentrazioni di CO2 il passaggio repentino (bailout) alla respirazione di miscele non più ipercapniche porta alla fibrillazione ventricolare e alla morte. Presumibilmente tali aritmie sono conseguenza dell’impossibilità di tornare alla normale eccitabilità cardiaca a causa della incapacità di ripristino dello scambio ionico indotta dalla prolungata ipercapnia (aumento nel sangue della concentrazione di CO2) (Lambertsen). Abbiamo visto quindi, che in condizioni iperbariche, l’Hb ritorna al sistema venoso ancora satura di O2. Ciò porta ad una riduzione di drenaggio della CO2 da parte dell’Hb (emoglobina). Nel cervello, quando l’Hb del sangue venoso di ritorno è satura con l’O2, la pp della CO2 nello stesso sangue venoso è aumentata di circa 7.5 mBars (Oriani). Naturalmente questa CO2 che si accumula nel SNC (sistema nervoso centrale) produce un abbassamento del pH intra ed extracellulare. Da recenti ricerche (Takmakov – Alexandrov – Palazzo) sembra che un ruolo rilevante sia dovuto all’aumento di H+ (Hydrogenioni: ione idrogeno) nel contesto del SNC. Infatti gli H+, non passando attraverso la barriera ematoencefalica in associazione alle potenziali implicazioni vasomotorie indotte dalla CO2, possono trovare giustificazione nella RRHS (Reversed Robin Hood Syndrome).

Tornando al sub che è ormai sopravvissuto alla CO2 HIT, dobbiamo rilevare che nel suo organismo ormai abbiamo una situazione dove, oltre ad un livello alto di O2, si è raggiunto anche un alto livello di CO2. La vasodilatazione periferica specie a livello del SNC apre le porte all’iperossia e quindi, come ormai professano da anni i ricercatori israeliani, la tossicità al SNC è funzione della CO2. Durante la seconda guerra mondiale molti subacquei che utilizzavano l’ARO hanno sperimentato sulla propria pelle le conseguenze dell’iperossia tanto da idealizzare un ipotetico mostro mitologico. Precedentemente ho ricordato l’effetto Haldane , quindi ora non posso esimermi di fare altrettanto con l’effetto Bohr (n.d.r. rilascio di molecole di O2 da parte dell’emoglobina quando questa è influenzata dalla concentrazione di H+ e CO2). Le variazioni di affinità dell’Hb per l’O2 sono determinate da variazioni di pCO2 e di pH e sono alla base dell’effetto Bohr che ha conseguenze sia sull’assunzione di O2 a livello polmonare, che sulla sua cessione a livello tissutale.

– a livello polmonare, l’assunzione di O2 è favorita dalla contemporanea eliminazione di CO2

– a livello tissutale, la cessione di O2 è favorita dalla contemporanea assunzione di CO2.

La tossicità dell’ossigeno si estrinseca attraverso la produzione di radicali liberi, sebbene l’esatto meccanismo non sia stato ancora ben capito. Studi effettuati su centinaia di subacquei dimostrano che è spesso impossibile identificare i segni dell’instaurarsi dell’avvelenamento da O2 del SNC.  E anche quando le convulsioni sono precedute da un’aura, di solito l’attacco convulsivo avviene in tempi immediatamente successivi, tali da non permettere al sub di prendere provvedimenti.

L’input visivo è estremamente importante. Al buio i tempi di convulsione sono più corti nei topi (Bittermann). Input sonori aumentano la latenza del FED (First Electrical Discharge). Utilizzando miscele respiratorie gli attacchi convulsivi avvengono a PPO2 minori rispetto alla respirazione di solo O2. Lamphier sostiene che dipenda da un aumentato WOB che fa aumentare la CO2 che potenzia la tossicità grazie ad un maggior flusso ematico cerebrale. La Swedish Defence Research Agency (2007) durante esperimenti condotti su gruppi di capre per sperimentare submarine escape da 240 mt. ha evidenziato il ruolo determinante della CO2 nello scatenare attacchi convulsivi. Le ricerche di Natoli e Vann testimoniano che gli individui più proni alla tossicità al SNC sono coloro che hanno una minore risposta ventilatoria allo stimolo della CO2 confermando i precedenti studi di Lamphier. Hanno inoltre evidenziato che l’immersione della faccia provoca un aumento del volume sanguigno cerebrovascolare.

In pratica, va evitato come la peste ciò che consigliava Bret Gilliam in base alle osservazioni di Hickey sul “riflesso mammale”. Va sicuramente bene per i mammiferi marini e per gli apneisti ma di certo non per i rebreatheristi! Gilliam,Watson e Exley immergevano la loro testa senza maschera e senza cappuccio per 5 minuti al fine di stimolare il diving reflex: pulsazioni ridotte (12-15/min), ritmo respiratorio rallentato (2 atti/min.), minori consumi di gas e migliore coordinazione in profondità. 

In Deep Diving, Gilliam, entusiasta di quanto sopra scritto, conclude però che il fenomeno andrebbe meglio analizzato dalle autorità scientifiche! Se questo auspicio si fosse realizzato forse oggi conteremo qualche vittima in meno! Non va dimenticato il ruolo delle “heat shock proteins” (HSP) che sembra svolgano un ruolo importante in quello che appare essere una sorta di mitridatismo all’iperossia un tempo inopinato. (Arieli)

Le attuali ricerche confermano che esiste una heat acclimatation memory, ovvero un individuo già precedentemente esposto necessita solamente di 2 gg. per “riattivare” le HSP contro 30 gg. di un novizio (Tetievsy) – Royal Navy (K. Donaldson)

Vi è una grande variazione individuale nella sensibilità e nel tempo di insorgenza di sintomi. Questa è quella che viene definita come “tolleranza all’ossigeno“. Rispetto alle esposizioni a secco, durante l’immersione diminuisce molto la tolleranza all’ossigeno, diminuendo i tempi di esposizione fino a un fattore di quattro o cinque. I medici iperbarici sostengono che in decenni di professione hanno visto pochi soggetti andare in convulsione all’interno delle loro camere alimentando così la convinzione che 1.6 sia un limite estremamente conservativo!

L’esercizio riduce molto la tolleranza all’ossigeno. Immersioni in acque molto fredde (<49 ° F / 9 ° C) o molto calde (> 88 ° F / 31 ° C) sembrano diminuire la tolleranza all’ossigeno. Una ricerca condotta presso la Navy Experimental Diving Unit (NEDU) nel 1986 ha specificamente esaminato come esposizioni di breve durata a pressioni parziali di ossigeno di 2.0 ATA o maggiori avrebbero un impatto sul tempo complessivo di tolleranza all’esposizione a 6 metri riducendolo in modo sostanziale. Questo giustifica casi come quello accaduto ad un tekky sul Lusitania che ha avuto convulsioni a sei metri a fine immersione (Thalmann). Da anni una serie di ricercatori si sono avvicendati a testimoniare l’importanza degli air breaks durante la somministrazione di ossigeno iperbarico. ( Clark – Lambertsen- Hampson – Atik -Davis – Zwart-Harabin ).

Di recente (Clark) ha evidenziato l’importanza di estendere i 5 min di hypoxy breaks a 10 min. In ultima analisi ciò che distingue il CA dal rebreather (eCCR) è appunto la dinamicità di quest’ultimo di mantenere una costante (spesso troppo alta) ppO2.
Tralasciando tutta una lunga serie di considerazioni elettriche ed elettroniche riguardo i sensori di ossigeno, oggetti da 2 lire nati per altre applicazioni e che sono in definitiva la vera anima di macchine che costano diverse migliaia di euro, si può facilmente intuire che ci possono essere diverse fasi dove si va oltre il SP. Al contrario del CA, dove nei vari cambi gas, ci sono enormi fluttuazioni della ppO2 verso il basso, in un buon eCCR non si verificano se non verso l’alto. In caso di momentanei superamenti dei limiti fisiologici della tossicità, il CA permette ai sistemi biochimici del nostro organismo di tamponare.

L’eCCR non ci regala nessuna opportunità se non adeguatamente istruito (ingannato!). È interessante ricordare che esistono una lunga serie di fenomeni ancora controversi e scarsamente studiati come l’Off Oxygen Effect (OOE).

Questo è quanto si può leggere anche semplicemente gironzolando su internet:
The “off oxygen effect” is a hazard encountered by technical divers performing deep dives and travel gases. The off oxygen effect happens when a diver breathing a high oxygen mix (usually travel gas) reaches the MOD for that mix, switches to bottom mix and keeps descending at a fast rate. This means that the high oxygen mix did not have enough time to be flushed away by the bottom mix and thus the body is still exposed to it. In turn, partial pressures of oxygen are elevated beyond maximum limits and a CNS hit may occur.

Secondo altri si verifica anche dopo cessazione improvvisa della respirazione di miscele con alte ppO2 a miscele con ppO2 molto più basse come ad esempio un bailout o semplicemente il raggiungimento della superficie dai 6mt. (punto 2 del “Quadruple Whammy” di R. Pyle).

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Per quale motivo spingo sul SP dell’ossigeno?
Per accelerare la DECO e uscire prima dall’acqua! Se proprio voglio accelerare è preferibile una pre-ossigenazione a 6 mt mentre faccio il bubble check e mi controllo scetticamente la linearità di risposta delle sonde. 10 minuti prima in talune circostanze mi valgono 30 dopo. 
Quanto sopra a dimostrazione di innumerevoli e ancora poco studiati meccanismi fisiologici e biochimici con cui l’organismo umano non ha potuto confrontarsi e subire un’adeguata selezione evolutiva in quanto solo da pochissimo si è dovuto relazionare con ambienti iperbarici: l’Homo aquaticus è ancora lontano e il sub attuale non si illuda nell’idealizzare il rebreather che ha sulle spalle al pari del tappeto volante di Aladino! La conclusione è che il modello di rebreather è importante come lo sono i sistemi di bailout, tutti i what-if e le attitudini del subacqueo; ma, sfortunatamente, non contano nulla una volta che lo stesso perde coscienza là sotto!

P.S. Ciò che ho scritto ha la pretesa di essere motivo di stimolo per le autorità scientifiche che dovrebbero comunicare ai subacqueo le loro conoscenze affinché si riesca a stilare anche per i rebreather un Blueprint for Survival di Exleyana memoria.

Luca Lucarini

 

photo credit andrea mucedola

 

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