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La cura millenaria dello scafo delle navi

tempo di lettura: 4 minuti

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livello elementare
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ARGOMENTO: ARCHITETTURA NAVALE
PERIODO: XXI SECOLO
AREA: DIDATTICA
parole chiave: trattamenti anti vegetativi, scafi, teredini

 

Da millenni i marinai hanno cercato, assieme all’arte di andar per mare, modi idonei per prevenire il “biofouling” ( bio = vita e fouling = immondizia ) e quel complesso fenomeno marino dell’incrostazione biologica. Un tempo sotto le navi non esistevano le “nanotecnologie siliconiche” ma c’era un semplice mozzo che andava in apnea a staccare manualmente le cozze e le alghe che si formavano in quantità.

Nave da guerra classica dipinta su un vaso di ceramica a figure nere rinvenuto a Cerveteri, Italia  – Fonte
Boat Cdm Paris 322 n1.jpg – Wikimedia Commons


Uno dei maggiori problemi tecnici che colpì gli antichi navigatori fu l’ambiente biologico che consumava lentamente gli scafi in legno. Nel XIII secolo, Dante Alighieri (Inferno, canto 21) descriveva come i Veneziani riparavano d’inverno i legni delle barche in cattivo stato divorati dalle Bisse (Teredini), sigillandoli con la stoppa e la pece. In realtà il problema era noto sin dall’antichità classica.

Teredo navalis, Teredine

Plutarco (46 – 127 a.C.) descriveva come “erbacce” e “melme“, le spazzature che colonizzavano e abitavano l’opera viva: “... aggregazioni coloniali sedentarie di Foranavi (Teredini) e Remore a ventosa insieme a quel mondo animale di molluschi vermiformi e di popolamenti biologici… ”.

La pece come «cera» per ungere le navi venne descritta da Plinio il Vecchio (23 – 79 d.C.) come rimedio per impermeabilizzare il fasciame delle navi dalle teredini, un rimedio ampiamente usato dai Romani. Si tiravano a secco gli scafi, si inclinavano prima da un lato, poi dall’altro rimuovendo le alghe e i crostacei, e quindi si stendeva un composto, detto «spalmo», formato da sego, olio di pesce, zolfo e «cerussa» (biacca) o bianco di piombo mescolate tra loro o da un composto di calce ed arsenico per prevenire l’attacco dei vermi che penetravano nelle fasciame cibandosi del legno.

Nei porti i piccoli e medi bastimenti erano posti “alla banda” (o abbattuti) ossia inclinati su un bordo fino all’emersione della chiglia per la manutenzione (pulizia e calafataggio) dello scafo. Questa manovra era descritta come far carena o carenaggio – Foto da Modellisti Navali Forum – Forumattivo

I Fenici ( XIII a.C.) spalmavano le carene delle loro imbarcazioni di bitume proveniente dal Mar Morto, mentre Greci, Persiani e poi anche i Romani le rivestivano di fogli metallici di bronzo, piombo e rame. Oltre alla pece e al bitume, furono usate in seguito sostanze dai nomi esotici più strani come la Dammar, proveniente dalla Indie Orientali, la Colofonia o pece greca, la Mastice dei pistacchi di Chio, la Sandracca dell’Africa, l’Ambra e la resina Coppale di Zanzibar.

Si sperimentarono fino al XVII/XVIII secolo varie tecniche per migliorare l’efficienza di scorrimento e limitare il degrado del fasciame, arrivando a testare ed utilizzare per secoli come protezione anche l’argento. Si usò anche un espediente più economico che consisteva nel ricoprire la carena con chiodi di ferro dalla larga testa triangolare (magliettatura); ma il rimedio si dimostrò presto inefficace, con due inconvenienti, la ruggine che corrodeva i chiodi e la facilità con cui venivano espulsi a causa delle continue torsioni indotte dal movimento.

nave veneziana sottoposta alla concia, operazione con cui si sostituivano il tavolato di protezione e, tramite fusione, la pece di impermeabilizzazione del fasciame – autore Enrico Pizzo – da Storie e leggende venete

Intorno al 1700, gli Inglesi iniziarono a mettere nel fondo delle loro navi una guaina di rame, che respingeva gli organismi e offriva una carena ben levigata, un minore attrito all’acqua, aumentando la velocità dei vascelli e una superiorità di veleggiare. Nel 1760 si iniziò a rivestire gli scafi delle marine militari d’Europa con sottili lastre e fogli di rame inchiodate a foderare la carena di legno. Il costo troppo caro della fodera di rame indusse alcuni costruttori di navi da traffico a sostituirle con fogli di zinco; ma la breve durata di questo metallo, troppo molle per poter resistere all’azione corrosiva dell’acqua di mare, ne fece abbandonare presto l’uso.

Nel XVIII secolo ai rivestimenti in piombo (in basso) si aggiunsero lastre di rame (in alto), da relitto spagnolo, Florida – photo credit @andrea mucedola

Per alcuni decenni, il rivestimento di rame fu di gran moda fino a quando scafi in acciaio entrarono in uso nel 1800 in quanto le cosiddette carene “ramate” nascondevano l’inconveniente di potersi applicare solo su scafi in legno, rappresentando un ostacolo allo sviluppo delle navi in ferro per via della corrosione galvanica. L’acciaio da solo era impermeabile ai vermi, ma non al fango, alle alghe e ai denti di cane. Il successo del rame come guaina spinse quindi gli armatori a utilizzare per i loro scafi rivestimenti con vernici appropriate.

Nacquero così i primi biocidi ( dal greco bios = vita e dal latino caedere = uccidere),  elementi chiave delle attuali vernici antivegetative, che inibiscono la formazione di incrostazioni biologiche con sostanze altamente tossiche che letteralmente “uccidono la vita”. Veri e propri veleni, inseriti nella mescola del prodotto, per la flora e fauna marina residente in prossimità dello scafo e che nel tempo vengono rilasciati in maniera controllata.

Sacha Giannini

 

 

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