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livello elementare
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ARGOMENTO: SICUREZZA MARITTIMA
PERIODO: XXI SECOLO
AREA: DIDATTICA
parole chiave: pirateria, sicurezza marittima
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Nei secoli il mare è sempre stato sorgente di sopravvivenza economica per gli abitanti delle terre costiere. Non solo per le risorse ittiche necessarie per la sopravvivenza ma per la sua capacità di essere ponte fra le diverse civiltà, incrementando gli scambi commerciali ed accrescendo il benessere di tutti. Quando si incominciò a comprenderne il valore economico e politico, si sviluppò il concetto di potere marittimo, ovvero della dominanza dei mari per salvaguardare gli interessi nazionali. In realtà questo concetto, come tanti, fu spesso abusato: la protezione delle rotte commerciali per il benessere di tutti divenne una scusa per affermarsi sugli altri … chi gestiva il potere sui mari aveva la possibilità di poter la propria volontà.
Niente di nuovo
Questo concetto, moralmente discutibile, si ripete da più di duemila anni … chi ha il controllo dei mari può controllare le economie e condizionare gli Stati più deboli alle sue necessità.
In accordo con il diritto internazionale il mare era tradizionalmente suddiviso nel mare territoriale, sottoposto alla sovranità dello Stato costiero e l’alto mare dove valeva il principio della libertà d’uso per tutti. Nel 1982, le Nazioni firmarono la Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare che ha sostituito, nei rapporti fra gli Stati contraenti, le precedenti Convenzioni di Ginevra del 1958, sul mare territoriale, la zona contigua, sull’alto mare, sulla piattaforma continentale e sulla pesca. Nella Convenzione, entrata in vigore solo nel 1994 a causa dei forti interessi nazionali, gli spazi marini furono maggiormente regolamentati introducendo fasce di mare poste tra le acque territoriali e l’alto mare. queste suddivisioni furono necessarie per salvaguardare gli interessi economici delle stesse. Nacquero così la zona contigua, la piattaforma continentale e la zona economica esclusiva (Z.E.E.) nonché i fondali marini internazionali definiti come patrimonio comune dell’Umanità. Ammettendo, per assurdo, che il mare divenga “terra di nessuno” dove il legittimo principio della libertà dei mari, per secoli perseguito, venga a mancare, le Nazioni per poter assicurare il flusso commerciale necessario alla loro sopravvivenza dovrebbero imporre con la forza i propri diritti, ristabilendo un potere marittimo nelle aree di loro interesse.
La storia ci insegna che, in assenza di diritto, solo il più forte potrebbe liberamente commerciare e le nazioni più deboli sarebbero sottoposte a questo regime di monopolio. Le economie di molti Paesi dovrebbero quindi cedere agli interessi di pochi e si verrebbero a creare dittature economiche foriere di continue crisi di instabilità nelle aree più povere. La prosperità di pochi verrebbe a cozzare con la povertà e l’indigenza di molti, causando il fiorire di attività criminali più o meno organizzate. Non è fantascienza, è un fenomeno già visto e mai completamente tramontato. Mi riferisco alla pirateria che, come vedremo, non è un fatto recente ma risale agli albori della storia, oltre 30 secoli fa quando gli antichi e misteriosi Shardana e altri popoli del mare incrociavano il Mediterraneo nel XI secolo a.C. seminando terrore e distruzione.
Tra di essi i Tirreni, un popolo di ceppo etrusco, che furono tra i maggiori pirati dell’antichità; la loro ingerenza fu tale da indurre i Romani a stabilizzare le rotte del mare con l’impiego di una forza navale dedicata. Dopo la caduta dell’impero romano molti popoli usarono il mare per le loro scorrerie: Goti, Normanni e Vichinghi, che saccheggiarono l’Europa fino al nord Africa per poi spingersi, questi ultimi, anche fino alle coste dell’odierno Canada. Popoli fieri, grandi marinai che sfruttarono la pirateria per la loro sopravvivenza e dominio. Il fenomeno ritornò in auge molte volte nei secoli seguenti, ed i pirati furono denominati con termini diversi; nacquero i corsari, di fatto pirati che venivano autorizzati con una “lettera di corsa” da uno Stato a rapinare navi mercantili con bandiera diversa.
Famosi i corsari inglesi che salvarono molte volte la Corona e l’Inghilterra. Curiosamente i Corsari si differenziavano dai pirati delle Antille solo per quel pezzo di carta. Forse il più noto fu Francis Drake, pupillo del famoso negriero John Hawkins. Nel 1570 Drake fu assunto dalla Marina Britannica come corsaro contro le navi e le colonie spagnole d’oltre oceano. Grande marinaio, avventuriero senza scrupoli e spietato con i nemici, Francis Drake raggiunse l’apoteosi al rientro da un avventuroso giro del mondo che aprì nuove frontiere al nascente impero britannico. La sua fama crebbe al punto di farne un mito ancor oggi riconosciuto nella marina reale d’oltre Manica. Si batté fino alla sua morte contro le flotte spagnole e … i pirati delle Antille.
I fratelli della Costa
I pirati delle Antille, pur operando nella totale illegalità, impiegavano regole d’onore ben definite che prevedevano compensi in caso di morte o di lesione durante gli arrembaggi. Alcuni di essi, i famosi bucanieri, fondarono la Fratellanza della Costa a cui si dice appartenesse anche il celebre Henry Morgan. Per gestire un insieme molto eterogeneo di personaggi, fu redatto un Codice della fratellanza (Code of the Brethren States), che conteneva regole di massima per tutti membri delle navi della Fratellanza. Prima del contratto d’imbarco, ogni pirata visionava il codice e, se di suo gradimento, lo accettava. Naturalmente questo lo vincolava a rispettarlo e, in caso di violazione, lo aspettava la morte. Anche se può sembrare strano, un codice etico in un’epoca in cui sulle navi vigeva la legge implacabile di chi comandava.
Infatti ciò non spettava agli equipaggi delle flotte governative che avevano decisamente meno vantaggi di “protezione sociale” dei pirati; essi venivano arruolati nelle bettole, spesso contro la loro volontà, e venivano trattati con durezza e nessun diritto se non ad una paga misera e cibo pessimo. Le diserzioni erano frequenti e molti di loro, alla prima favorevole occasione, si davano alla pirateria. Fu intorno al 1700 che all’isola della Tortuga fu creata la bandiera icona dei pirati, un teschio con le tibie incrociate, chiamata Jolly Roger che veniva innalzata a riva prima di attaccare le prede.
Ed i pirati di oggi?
I pirati di oggi giorno non sono poi così diversi; come i loro predecessori molti sono il frutto di un disagio profondo derivante dal degrado di strati sociali che non hanno, dal punto di vista economico, un possibile futuro per loro e le loro famiglie. Questa non vuol essere una giustificazione del fenomeno: la pirateria è un fenomeno abbietto che va combattuto strenuamente sia in mare sia in terra. Mi domando però, se nel terzo millennio, a fronte delle emergenze di sopravvivenza in vaste aree del pianeta, sia il caso di spendere ogni anno miliardi di dollari per contrastare in mare questi fenomeni o sia piuttosto preferibile intervenire a priori sulle cause, stabilizzando le aree critiche per evitare la nascita di questi fenomeni malavitosi. Ciò potrebbe essere realizzato attraverso azioni di solidarietà realmente consapevoli e disinteressati. Di fatto, da fonti dell’Interpol, sembrerebbe che i pirati Somali siano assoldati da organizzazioni mafiose con sedi in Europa o negli Emirati. Tenendo conto che le navi mercantili transitanti dal Golfo di Aden ad Hormuz trasportano ogni anno miliardi di dollari in prodotti, assaltare le navi di passaggio, catturarle ed ottenere un riscatto può portare nelle casse del clan pirata denaro sufficiente per poter far vivere per parecchi anni tutto il villaggio e, naturalmente, sovvenzionare nuove attività illegali.
Dopo un picco di sequestri, dal 2010 al 2012, a causa del deciso e costosissimo impegno internazionale, il numero di attacchi si è fortemente ridotto. Sfortunatamente nelle loro basi in Somalia ci sono ancora alcune navi catturate in attesa del pagamento del riscatto da parte delle compagnie che, in qualche caso, hanno letteralmente abbandonato gli equipaggi al loro destino. In alcuni casi i pirati si sono riciclati “nell’industria” dei rapimenti sulla terraferma e nel traffico di esseri umani, di armi e di droga. Ma il flusso derivante dai riscatti ha anche garantito coperture politiche visto che un famoso capo dei pirati, Mohamed Abdi Hassan “Afweyne”, dietro la proposta di amnistia lanciata dal presidente somalo Hassan Sheikh Mohamoud, ricevette un passaporto diplomatico a Mogadiscio e si ritirò ad agiata vita privata.
Ma dove è finita la rimanenza dei soldi dei riscatti?
L’Interpol ne ha trovato tracce in tutto il mondo. Si stima che fra il 40 e il 60 per cento sia riciclato all’estero, soprattutto nel mercato immobiliare del Kenya e negli Emirati Arabi. Un grande business a tutti gli effetti. D’altronde in Somalia sembra essere opinione comune che i pirati siano in realtà dei combattenti per la salvaguardia del loro territorio. Ricordo che ad una riunione dello Shared Awareness and Deconfliction (SHADE), a Manama, fu riferito che un sito somalo, il “Wardher News”, dopo i primi incidenti in mare, aveva rivelato che il 70% della popolazione somala appoggiava la pirateria come forma di difesa nazionale delle acque territoriali del paese. E’ curioso che il termine somalo più vicino al significato di “pirata” sia burcad badeed, ovvero ladro dell’oceano, ma i pirati somali preferiscano essere chiamati badaadinta badah, salvatori del mare”. Molti di essi sostengono che le loro azioni hanno lo scopo di difendere la sovranità delle loro acque territoriali dai predatori stranieri.
Somalia
Il caso della Somalia è esemplare. Nel 1990, il corrotto governo somalo, incapace di reagire alla carestia nelle Provincie, crollò lasciando ai clan il controllo delle stesse e trasformando il paese in una terra di nessuno. La situazione divenne non più gestibile a seguito del collasso delle misere economie locali. Gli abitanti delle aree costiere denunciarono l’avido depredamento del pescato da parte delle compagnie della pesca senza avere però alcuna risposta dalla comunità internazionale.
La situazione di instabilità favorì la creazione di gruppi irregolari di “guardia costiera” per contrastare la pesca selvaggia dei pescherecci internazionali. Il passo verso un’attività più redditizia, la pirateria, fu breve; i clan criminali arruolarono i giovani promettendo grandi guadagni con poco sacrificio. Tenendo conto il reddito medio somalo, inferiore a 30 dollari al mese, la possibilità di ottenere dalle compagnie di navigazione riscatti a sei cifre a seguito del sequestro di navi e equipaggi, fece rapidamente presa nei villaggi e nacquero i primi gruppi di pirati divenuti poi tristemente famosi nelle cronache recenti. Ma torniamo ai primi anni. A seguito dei sequestri, la risposta internazionale fu immediata anche se spesso disorganica; diversi gruppi navali militari di sorveglianza e supporto al proprio traffico mercantile operarono simultaneamente su di un’area di traffico mercantile vastissima. Le difficoltà operative di coordinamento e gli enormi costi di gestione portarono ad accordi bilaterali tra i gruppi navali internazionali.
CMF una risposta multinazionale vincente contro la pirateria
Di fatto si instaurò un “potere marittimo internazionale” condiviso tra le Nazioni economicamente più interessate basato su una convenienza comune. Venne quindi creata una partnership internazionale a guida statunitense, il CMF (Combined Maritime Forces) con sede a Manama, Bahrain, per promuovere sicurezza, stabilità e prosperità nell’area. Il Comando del Combined Maritime Force coordina tre task force internazionali per il mantenimento della maritime situation awareness nell’area. Oltre alle azioni anti pirateria effettua missioni constabulary contro tutti i traffici illeciti in mare (contrabbando di armi e droga e esseri umani) per mezzo di velivoli e gruppi navali internazionali. Il CMF è un’organizzazione politico-militare complessa ed innovativa (di fatto non è una coalizione) dove non esistono obblighi per le trenta Nazioni partecipanti ma solo una condivisione di intenti per il benessere comune.
Il sistema di controllo dell’area marittima compresa tra Bab el Mandeb, il Corno d’Africa, le Seichelles e lo stretto di Hormuz sembra funzionare e dal 2012 gli incidenti si sono ridotti tramite l’instradamento dei convogli del traffico mercantile in corridoi controllati e il coordinamento anche altri gruppi navali nell’area. Sussistono però ancora molti problemi legali: le legislazioni internazionali differiscono significativamente e volendo giudicare i pirati si è dovuto ricorrere all’assistenza di nazioni confinanti come il Kenya e le Seychelles che hanno accettato di ospitare i processi.
La pirateria: un problema globale
Come più volte segnalato dall’IMO, il fenomeno della pirateria non si limita alla regione somala; crimini in mare avvengono continuamente in Sud America, nelle acque dell’Indonesia e della Malesia e, in maniera diversa ma non meno preoccupante, nel West Africa.
Episodi criminali in mare sono avvenuti anche nel Mediterraneo a carico di piccole imbarcazioni da diporto. Nel 2008, una barca a vela fu assalito da un gommone nella baia di Porto Vecchio, in Corsica, con un bottino di trecentomila euro. Dal 2002 ad oggi, più di un migliaio di imbarcazioni da diporto sono state rubate nei porti del sud della Francia e della Corsica tra cui 32 yacht di lusso, probabilmente ad opera di gruppi criminali provenienti dai paesi dell’Est dell’Europa.
Nel campo della sicurezza marittima esistono ancora molti problemi non risolti che fanno comprendere quanto ci sia ancora bisogno di un adeguamento della legislazione internazionale. La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, con tutti suoi limiti, si basa sul principio accettato da tutti della libertà sui mari e gli interventi di polizia marittima sono quindi limitati alle acque internazionali. Si sentirebbe la necessita’ di inseguire e perseguire i criminali anche nelle loro acque territoriali ma ciò verrebbe in contrasto sul principio citato. La legge internazionale prevede il consenso dello Stato costiero o una precisa deliberazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che autorizzi gli Stati ad intervenire sul territorio per distruggere le basi dei pirati. Tra il dire ed il fare, come sempre, c’è di mezzo il mare, in questo caso, territoriale.
Anche in situazioni di rogue states, un intervento non autorizzato creerebbe di fatto una legittimazione del diritto del più forte di imporre la propria volontà su un territorio altrui, legalmente non accettabile. Altro aspetto sensibile è quello degli esistenti limiti giuridici per sottoporre i pirati alla giurisdizione degli Stati che li catturano; si potrebbero ipotizzare tribunali penali internazionali, magari a livello regionale, senza dover ricorrere agli attuali contratti con Paesi terzi che si offrono di processi sul loro territorio (come ad esempio il Kenya).
Considerazioni
Questi episodi, anche se perpetrati da pochi e, spesso, mal addestrati criminali, causano danni enormi alle economie internazionali e vengono talvolta mascherati con rivendicazioni politiche o religiose. Il loro contrasto da parte della Comunità internazionale è dispendioso e non definitivo. Sarebbe più opportuno ed efficace intervenire a priori sul territorio, cercando di rimuovere le cause di instabilità sociale e sostenere le economie locali con programmi di aiuto consapevole. Un’azione certamente invasiva, in tutti i sensi, che potrebbe però risolvere alla fonte il problema. Un comportamento connotato da caratteri opportunistici che però ci pone davanti ad un dubbio morale: meglio cercare di stabilizzare aree geografiche in mano a nessuno oppure lasciare che questo male si diffonda e porti il suo malessere anche in altre parti del mondo?
Non si tratta di imporre la democrazia, concetto che mal si adatta a tutte le civiltà, ma di autodifesa per portare una pace dove non è mai esistita, un peace enforcing duraturo che può richiedere anni se non decenni di permanenza in una determinata area per scrivere un futuro che alcuni popoli non hanno mai avuto e, spesso, ricercano in aree del mondo lontane dove la loro integrazione non è gratuita e nemmeno certa, alimentando fenomeni odiosi come il razzismo e l’intolleranza reciproca.
La sicurezza in mare (Maritime Security) è quindi tornata in auge: che si tratti di scorribande di pirati, di flussi illeciti di contrabbandieri e esseri umani o di minacce occulte da parte di governi che cercano di fermare o condizionare il traffico mercantile per ragioni politiche, l’effetto non cambia. In un prossimo articolo parleremo dell’uso di alcune armi navali, erroneamente considerate minori, per imporre la volontà di pochi sui mari.
Andrea Mucedola
immagine in anteprima: L’equipaggio della nave mercantile MV Faina si trova sul ponte dopo una richiesta della Marina degli Stati Uniti per verificare la loro salute e benessere. La nave mercantile, gestita da Kaalbye Shipping, Ucraina, fu sequestrata dai pirati e costretta a procedere all’ancoraggio al largo della costa somalo. La nave trasportava un carico di carri armati ucraini T-72 e attrezzature militari correlate – autore US Navy Mass communication Specialist 2nd Class Jason R. Zalasky
Faina highjacked.jpg – Wikimedia Commons
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ammiraglio della Marina Militare Italiana (riserva), è laureato in Scienze Marittime della Difesa presso l’Università di Pisa ed in Scienze Politiche cum laude all’Università di Trieste. Analista di Maritime Security, collabora con numerosi Centri di studi e analisi geopolitici italiani ed internazionali. È docente di cartografia e geodesia applicata ai rilievi in mare presso l’I.S.S.D.. Nel 2019, ha ricevuto il Tridente d’oro dell’Accademia delle Scienze e Tecniche Subacquee per la divulgazione della cultura del mare. Fa parte del Comitato scientifico della Fondazione Atlantide e della Scuola internazionale Subacquei scientifici (ISSD – AIOSS).
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