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Ultimo atto in Medio Oriente, un risiko senza regole che va ben oltre i suoi confini

tempo di lettura: 7 minuti

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livello elementare

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ARGOMENTO: GEOPOLITICA
PERIODO: XXI SECOLO
AREA: MEDIORIENTE
parole chiave: Israele, Ira, BRICS, Stati Uniti 

Nella notte tra il 25 e il 26 ottobre u.s., l’attesa e scontata ritorsione israeliana ha colpito infrastrutture militari sul territorio iraniano con una serie di attacchi aerei. Un messaggio ponderato, sicuramente addolcito dalle pressioni statunitensi, al fine di far comprendere all’Iran la non disponibilità di Israele a sottostare ai continui attacchi suoi e dei suoi gruppi satelliti che operano in Medio Oriente. Israele ha lanciato la sua prima ondata di attacchi su Teheran dopo le 02:00 di sabato mattina (22:30 GMT di venerdì). I commentatori di Al Jazeera da Teheran hanno riferito che circa tre ore dopo, una seconda ondata ha colpito Teheran e le province di Ilam e Khuzestan. Verso le 06:00 di mattina (02:30 GMT), Israele ha dichiarato di aver “completato” gli attacchi e “raggiunto i suoi obiettivi”. Notizie dell’Agenzia siriana SANA (non confermate da Israele) riferiscono che sono stati condotti anche attacchi aerei su obiettivi militari nella Siria centrale e meridionale. Secondo Associated Press, l’attacco di Israele all’Iran, condotto con aerei è stato diretto esclusivamente su obbiettivi militari, danneggiando le strutture di una base militare segreta a sud-est della capitale iraniana e un’altra base legata al suo programma di missili balistici. La base militare a sud-est è stata collegata dagli esperti in passato ai programmi nucleari di Teheran. Di fatto la base di Parchin è un’area in cui l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (IAEA) aveva rivelato che l’Iran in passato avesse condotto test di esplosivi ad alto potenziale impiegati per innescare un’arma nucleare. Dalle immagini satellitari, altri danni sono visibili nella vicina base militare di Khojir, che gli analisti ritengono nasconda un sistema di tunnel sotterranei e siti di produzione di missili. 
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Veniamo ora all’analisi dell’evento. Da un punto di vista militare l’azione è stata condotta in maniera chirurgica, confermando la capacità militare israeliana in operazioni lontane. Curioso il fatto che un così alto numero di velivoli (si parla di un centinaio) non abbiano trovato contrasto lungo la rotta, cosa che fa pensare ad un tacito assenso da parte di Stati come l’Arabia Saudita e la Giordania … ma è inspiegabile come non ci siano state reazioni da parte della Siria e di alcune aree dell’Iraq. Questo potrebbe confermare la voce che l’attacco fosse stato preannunciato all’Iran e forse anche ad altri Paesi della Regione e che nessuno abbia voluto sporcarsi le mani. Sicuramente le difese antiaeree iraniane non hanno funzionato, lasciando ai velivoli dell’aviazione di David la piena libertà di azione sugli obiettivi. Una domanda che ora ci possiamo porre è quali potrebbero essere le conseguenze a livello internazionale a seguito di questo nuovo atto bellico; per quanto questo ennesimo episodio tenda inevitabilmente ad alzare la tensione nella regione mediorientale, ci sono altri aspetti che andrebbero considerati e che allargano l’orizzonte degli eventi. In altre parole più di chiederci cosa succederà adesso dovremmo analizzare il problema alla radice per evitare che il conflitto si allarghi pericolosamente anche ad altre regioni.

È un problema nuovo?

No, la situazione mediorientale è incancrenita dall’ostinazione delle parti a mantenere uno status quo che non può continuare e che dovrà, prima o poi, arrivare alla creazione di una terra con due Stati indipendenti. Se da un lato la creazione dello Stato di Israele è ormai un dato di fatto, dall’altro esistono situazioni pregresse, che non possono essere cancellate con un colpo di spugna. Ce lo dice la storia, ce lo dicono gli errori di decenni (iniziati con il Mandato Britannico della Palestina 1, assegnato dopo la sconfitta dell’Impero ottomano nella Grande Guerra dalla Società delle Nazioni all’Impero britannico che lo gestì tra il 1920 e il 1948 nella regione storica del Levante.

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Fu in quel periodo che, sotto spinte del movimento sionista, l’immigrazione ebraica nella zona subì una netta accelerazione, con l’acquisto di terreni in cui si insediarono i nuovi coloni. Il risultato fu che la popolazione ebraica in Palestina passò dalle 83.000 unità del 1915 a oltre 900.000 nel 1947, al termine della seconda guerra mondiale; un numero preponderante se raffrontato ai circa 762.000 arabi musulmani e i quasi 90.000 arabi cristiani preesistenti su un territorio solo parzialmente fruibile, tenendo conto delle vaste aree desertiche presenti. Inutile rinvangare che questa situazione non risolta ha portato alla nascita del seme della paura e del dolore in una “Terra Santa” da sempre territorio di scontro di ideologie ed interessi. L’unica soluzione, allo stato attuale, prevedrebbe la buona volontà da ambedue le parti di addivenire ad un equo accordo di suddivisione creando due Stati indipendenti, soluzione ostacolata dalle frange estremiste presenti in entrambi gli schieramenti.

Purtroppo questo non è l’unico problema ereditato dalle cattive gestioni del cosiddetto ordine mondiale; se un tempo il ruolo di pacificatore del mondo era stato assunto dagli Stati Uniti, la debolezza sociale e di visione che attraversa il grande paese americano ha investito di rimbalzo anche la vecchia Europa. Se da un lato dobbiamo ringraziare gli Stati Uniti per averci salvato dal pericolo sovietico, dall’altro ci stiamo accorgendo che l’aquila americana fa fatica a volare, con Presidenti poco attenti e forse non sufficientemente visionari che non comprendono che i tempi sono cambiati. Di fatto dal bipolarismo post bellico al presunto ordine mondiale dei primi anni del terzo millennio, la politica americana continua a dimostrare la sua debolezza interna ed è incapace di opporsi alle schegge impazzite che emergono sul pianeta. La realtà è che gli Stati Uniti si stanno scontrando contro nuovi avversari che stanno seguendo in maniera indipendente la loro agenda.

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Come scrive Alan Friedman nel suo ultimo libro 2, la pax americana ha vissuto una parabola dalla durata assai breve, poco più di 80 anni, e la sua politica estera è stata caratterizzata a tratti da superficialità, incompetenza, ipocrisia e una generale mancanza di sensibilità culturale; la verità è che la maggior parte degli americani non conosce e non capisce il resto del mondo, assumendo che tutto ciò che è diverso è sbagliato. È un fatto di educazione scolastica che ha regole che valgono solo nel CONUS, ormai anacronistiche in un mondo globalizzato. La maggior parte degli statunitensi non conosce la storia o la geografia mondiale e segue pedissequamente i messaggi trasmessi sui media, perfetto esempio di Panem et circenses. In politica estera si è passati dal “containment” di Truman al pragmatismo kennediano che portò il Paese anche a guerre sbagliate per contrastare il pericolo comunista, e poi alla politica di George Bush che si trovò a governare il mondo alla fine della Guerra fredda senza però avere una visione strategica di lungo periodo. Infine la short mind vision di Bill Clinton che favorì la globalizzazione, senza comprenderne i rischi e le criticità, esacerbando le disuguaglianze e il social divider che colpì il suo stesso Paese con la terribile crisi finanziaria del 2008. Queste politiche hanno lasciato le loro tracce nel tessuto sociale di un’America sempre più disorientata, divisa e distaccata dagli alleati europei a fronte di un mondo in cui si osservava la rinascita di fenomeni totalitari.
Anche la mancanza di visione di Barack Obama, con la sua incapacità di comprendere il fenomeno della Primavera araba, e la poca sensibilità di Donald Trump verso il multilateralismo, già incrinato dagli errori dei suoi predecessori, hanno creato un vuoto di potere globale. Non bisogna meravigliarsi che questo cammino poco virtuoso, culminato con un improbabile e confuso Joe Biden, abbia favorito i tentativi del resto del mondo di sfuggire a questo vecchio ordine, incrinato nel suo interno da tante contraddizioni. Come scrive Rampini: “L'”American dream” è pieno di buchi, alcuni ormai lo descrivono come un incubo, pur tuttavia non hanno un sogno alternativo da proporre“. Forse l’errore fondamentale da parte nostra è pensare gli Stati Uniti come un unicum: in realtà è un crogiuolo di razza diverse unite da un sogno americano che si è rivelato negli ultimi anni non scevro da problemi sostanziali: dalla follia woke al bigottismo esasperato. Altro elemento di incertezza è la dicotomia tra due diverse visioni della vita che si identifica nel “family feud” tra Repubblicani e Democratici. Per assurdo la diversità culturale ha fatto grande l’America ma potrebbe segnarne la fine.

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D’altro conto la Russia, tradizionale alter ego del bipolarismo precedente, pur non essendo in grado di opporsi al gigante americano, ha mostrato la sua volontà di volersi contrapporre ad un Paese che, al di là delle capacità militari, si è socialmente moralmente impoverito ed è attualmente incapace di porsi come esempio verso i Paesi occidentali. Ci possiamo domandare dove sia finito il pragmatismo americano, strangolato dalla sua difficoltà interna di nation building; una situazione che non sfugge a quel resto del mondo che non si ritiene allineato con un Paese con cui non condivide alcun elemento culturale. La creazione dei BRICS è una dimostrazione di un trend che dovrebbe preoccupare gli Stati Uniti. Riusciranno gli Stati Uniti a rigenerarsi o siamo alla vigilia di un cambiamento epocale? Se la governance statunitense non comprenderà la necessità di rivedere il suo approccio con il resto del mondo gli Stati Uniti rischieranno di rinchiudersi in se stessi, siglando di fatto la fine del loro espansionismo economico sull’intero pianeta e, quel che è peggio, lasciandoci alla merce di un mondo in cui i valori occidentali saranno spazzati via. L’argomento è vasto e articolato per cui ci tornerò con un prossimo articolo.

Andrea Mucedola

 

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Andrea Mucedola

in anteprima caccia F15 israeliano si prepara alla sua missione  F-15I vs Iranian strikes on Israel 01.jpg – Wikimedia Commons
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Note

1. Il Mandato Britannico per la Palestina, disposto dalla Società delle Nazioni, all’articolo 2, prevedeva che «Il Mandatario (l’impero britannico) sarà responsabile di porre il Paese in condizioni politiche, amministrative ed economiche tali da garantire la creazione di una patria nazionale ebraica, come stabilito nel preambolo, e lo sviluppo di istituzioni autonome, nonché la salvaguardia dei diritti civili e religiosi di tutti gli abitanti della Palestina, indipendentemente da razza e religione.»

2. La fine dell’impero americano. Guida al Nuovo Disordine Mondiale di Alan Friedman – La nave di Teseo

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