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A vela per posti lontani

tempo di lettura: 7 minuti

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livello elementare

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ARGOMENTO: VELA
PERIODO: XXI SECOLO
AREA: OCEANI
parole chiave: skipper, esploratori, oceani, Best Explorer

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Sessantamila miglia, quindici anni, una barca a vela di acciaio, nessuno sponsor, luoghi remoti. Ma perché? Spirito di avventura, per certo unito a un fascino smisurato per il mare e a una voglia irrefrenabile di raggiungere ed estendere i propri limiti per quanto possibile. Ne è uscito un viaggio durato appunto quindici anni che ha portato a circumnavigare l’Oceano Artico e a passare sei anni in Pacifico. E, in più, a segnare alcuni record, tra cui quello di aver portato per primi la bandiera italiana intorno all’Artico.

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Che cos’ha significato per chi l’ha fatto? Come ha vissuto l’esperienza, cos’ha dovuto subire e a cosa ha dovuto rinunciare, che effetto ha avuto per chi stava intorno?

Con una base di solida conoscenza della navigazione a vela, da diporto e oceanica, senza di cui non si comincia neppure a progettare qualcosa di serio e si può soltanto sognare, il mio stato d’animo durante la preparazione della prima tappa di quel viaggio, una navigazione di cinquemila miglia dalla Liguria fino al nord della Norvegia durata cinque mesi, era di entusiasmo misto ad apprensione, non di tranquillità: quante cose da affrontare, quante difficoltà, anche inattese, da superare, quante incognite che si presentavano man mano che il progetto si approfondiva! Bisogna adattarsi alle circostanze e per noi questo ha voluto dire soprattutto combattere con un budget limitatissimo. Perciò abbiamo dovuto affrontare spesso inconvenienti tecnici dovuti all’impossibilità di utilizzare attrezzature ottimali. Ma l’entusiasmo di tutto l’equipaggio, nove in tutto, a tappe, in questo primo viaggio, il fremito della novità, l’entusiasmo della scoperta dei posti nuovi, in breve, dell’esplorazione, era al massimo.

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La barca, Best Explorer, possiede una sua personalità di animo gentile e affettuoso nei confronti dei suoi proprietari e amici. Incidenti vari dell’attrezzatura si sono verificati, per forza, ma le loro conseguenze non sono mai state drammatiche.

Un bullone lasco ha ceduto qualche ora dopo la fine di una seria tempesta nell’Atlantico settentrionale, ma quando si era già in acque calme e protette; l’ancora ha arato, una volta soltanto, dopo un’intera notte di vento forte, ma quando eravamo ormai sul punto di salparla; un’impiombatura appena ricevuta dal venditore ha ceduto a cinquecento miglia dalla meta, combinandosi con la rottura del vecchio motore e lasciandoci col solo fiocco a sud delle isole Svalbard, ma quando ci sono stati quattro giorni di brezza al traverso, ideale per la traversata. L’ultimo e unico guasto serio al “nuovo” motore, dopo ben ottomila ore di servizio, si è manifestato proprio mentre ci stavamo ormeggiando vicino al cantiere per l’ultima volta prima della vendita della barca! E così via… Gli imprevisti della navigazione, anche la più oculata, arrivano senza annunciarsi. Lo Skipper, io, ha dovuto mantenere sempre la testa bene sulle spalle anche quando le circostanze erano meno favorevoli, ricacciando l’emotività nei recessi più profondi possibili. Ricordo in particolare stretti fra i ghiacci del pack lo spaventoso schiacciamento con danni e poi, più avanti nel viaggio, uno sbandamento violento che mi sbatte su un lato e un grido che mi fa saltare fuori dalla cuccetta durante un breve riposo: “Non abbiamo più il timone”.

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Viaggio: Passaggio a Nord Ovest, fine settembre. Luogo: il mare dei Chukchi, a nord dello stretto di Bering. Ambiente: tre di notte, buio pesto, la costa che si restringe dai due lati a poche decine di miglia sottovento. Vento: sessanta nodi dal polo nord. Andatura: a secco di vele, nove nodi con la sola spinta del vento sull’attrezzatura. Mare: onde di quattro e più metri frangenti a poppa, subito dopo che, per l’unica volta in quindici anni, una di esse entra in pozzetto e traversa la barca sdraiandola sull’acqua. Breve sosta prima di salire sulla scaletta che porta sul ponte, sottoponendomi a un fulmineo corso di training autogeno per mostrarmi con un viso disteso. Nel pozzetto sembrava di essere in un simulatore di volo: niente all’esterno era visibile nel buio pesto e l’urlo del vento era assordante con lo scafo stranamente stabile. Gli altri due membri dell’equipaggio, Nicoletta e Salvatore, già con la barra di emergenza pronta ad essere montata. Prendo la ruota in mano ostentando sicurezza e, con intimo ed esternato sollievo, in breve mi rendo conto che essere stati traversati dall’onda e messi in cappa aveva tolto pressione alla ruota e dato la sensazione a Salvatore di aver perduto il timone. 

Il Passaggio a Nord Ovest, dopo la prima traversata fino in Norvegia e le varie spedizioni alle Svalbard, colme di emozioni come le due sopra descritte, mi aveva portato al limite della tensione, sia per i tanti rischi corsi sia per la continua preoccupazione della navigazione in acque poco cartografate e lontane da qualsiasi possibilità di rapido soccorso per le persone come per la barca. Dopo aver promesso a me stesso che quella sarebbe stata l’ultima avventura, l’inverno passato a pianificare la successiva navigazione nelle acque meno critiche dell’Alaska mi aveva fatto digerire meglio l’esperienza

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Senza che l’attenzione ai dettagli e la cautela nella programmazione fosse diminuita, affrontare le successive navigazioni, ventiduemila miglia da Bering al Giappone, mi è sembrato un gioco da ragazzi. Perfino quando abbiamo affrontato di nuovo l’Artico scorrendo le coste siberiane altrettanto pericolose e forse ancora più critiche lungo la Northern Sea Route, pur sempre soggetto a una forte tensione, non ho più raggiunto il livello di stress subito nel Passaggio a Nord Ovest: quell’esperienza è stata fondamentale.

Non che le mie navigazioni siano diventate semplici! Una delle più faticose e difficili è stata la recente “discesa” lungo le coste norvegesi dall’estremo nord fino in Danimarca. In quella circostanza mi sono trovato ad essere praticamente solo a tenere il timone in mano per quasi tutte le duemila miglia di una costa estremamente pericolosa. Lì ha pesato la fatica e la necessità di mantenere costantemente desta l’attenzione. Navigare quasi sempre in acque completamente ignote e senza l’ausilio di molte informazioni dà un brivido di apprensione soprattutto avvicinandosi alla costa e fa pensare ogni volta ai nostri lontani predecessori che affrontavano queste stesse acque con un clima più rigido ancora e senza l’aiuto dei nostri strumenti né il sollievo dei moderni confort.

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Ma basta parlare di problemi e di ansie. Il contrappeso, positivo, si presenta sotto numerose facce. Ad esempio: la bellezza, talvolta indescrivibile, delle coste solitarie coperte di neve, o coperte di palme o di giungla, per non parlare dei maestosi iceberg, è un magnete potentissimo. L’incontro raro, ma ripetuto, con la fauna marina e terrestre, balene, orche, delfini, trichechi, orsi bianchi, renne, grizzly, uccelli di mare di ogni tipo, pesci, granchi, volpi volanti, lascia senza fiato …

Prediligo gli ambienti selvaggi
Non so perché, ma fin da piccolo mi piaceva osservare la natura senza disturbarla, come per scovarne i segreti. E poi il mare che nasconde in un volume profondo migliaia di metri segreti che svela solo saltuariamente e che bisogna saper scorgere, altrimenti sembra soltanto un deserto. Navigarci a lungo e senza soste ce ne dà l’occasione. C’è molta differenza tra una navigazione a piccole tappe costiere e una lunga oceanica. La permanenza protratta in un ambiente scomodo, bisogna ammetterlo, ristretto, gomito a gomito con altre persone, lontano dalle risorse (comunicazioni difficili, impossibilità di soccorso immediato, restrizioni nella dieta), gli orari strani delle guardie, un ambiente a prima vista monotono, se si possiede una certa flessibilità e capacità di adattamento ci gratifica di una crescita personale inaspettata. È un’esperienza quasi impossibile da acquisire altrove.

Ho avuto proprio recentemente occasione di ascoltare un altro skipper oceanico che ha raccontato la propria, sorprendentemente simile alla mia: ci si rende conto che quella vita, quell’ambiente sempre uguale e pur sempre diverso, quel mare a volte così rabbioso e altre così dolce e possente è così appagante, è così generosa di sensazioni intime e di introspezione che la meta si vorrebbe non arrivasse mai. Tanto che la fine della traversata ha il sapore di una perdita personale.
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Noi abbiamo viaggiato molto senza quasi mai fermarci troppo in una stessa zona. Così non abbiamo accumulato osservazioni puntuali e prolungate che ci permettessero confronti misurabili nel tempo. Però anche così gli effetti del riscaldamento erano evidenti, difficile negarlo. Evidente anche la fragilità degli ambienti estremi e dei popoli che vi abitano, l’Artico, certo, ma anche le isole del Pacifico. Luoghi dove la società “affluente” fa fatica ad arrivare. Lì ci si rende conto facilmente dell’impatto del nostro sistema economico nei luoghi dove la ridotta densità di popolazione e la difficoltà di accesso rendono difficile applicare le nostre regole. La nostra economia è basata sulla crescita costante e questa viene alimentata dal consumo. La progettazione dei beni è orientata in quella direzione, ma nei luoghi dove costa troppo portare via i “vecchi” prodotti e dove l’unico modo pratico di eliminare i rifiuti è quello di bruciarli all’aria aperta, molti di essi rimangono sparsi per l’ambiente. Solo una progettazione controcorrente, che preveda una lunga durata e la riparazione dei prodotti guasti risolverebbe questo problema e, diciamolo pure sottovoce, anche molti dei nostri. In quei posti, arrivandoci come viaggiatori e non come turisti, lontani quindi dalla mercificazione dei contatti, abbiamo incontrato molte persone meravigliose che ci hanno accolto col sorriso sulle labbra. Ci hanno colpito soprattutto e dappertutto i bambini, usi a giocare con un pezzo di legno, come da noi tanto tempo fa, e che non abbiamo mai sentito piangere e gli Inuit che parlavano del riscaldamento con rassegnazione per la difficoltà di visitare i vicini, diversi fiordi distanti, perché senza il mare ghiacciato non possono più usare le slitte con i cani e per mare le visite sono molto più difficili. Abbiamo conosciuto Polinesiani e Melanesiani pronti a invitarci nelle loro capanne costruite con le tecniche di un tempo e a condividere i loro pasti a fronte di un piccolo aiuto, spesso consistente nel regalo di oggetti fuori uso che si ingegneranno a rimettere in funzione o a destinare ad altri usi. Siamo stati anche oggetto della curiosità dei Giapponesi che ci hanno dedicato una puntata di un loro programma televisivo di successo. Siamo stati esaltati come eroi dai Russi che non credevano ai loro occhi vedendoci affrontare i mari siberiani su quella che ritenevano essere una fragile barchetta.

In conclusione, il lungo nostro viaggio è stato prodigo di emozioni, di soddisfazioni, di brividi, non solo di freddo, e di insegnamenti. Un guadagno netto di esperienze e di vita.
Nanni Acquarone
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