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livello medio
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ARGOMENTO: GEOPOLITICA
PERIODO: XXI SECOLO
AREA: DIDATTICA
parole chiave: pirateria
Pirateria e traffico di armi
Il semplice trasporto di armi non costituisce pirateria. Ovviamente una nave “pirata”, secondo la definizione accolta dall’art. 103 della Convenzione del diritto del mare, può essere dedita anche al traffico di armi. Ma essa può essere catturata e sequestrata in alto mare in quanto nave pirata e non perché sia adibita anche al traffico di armi. Come accennato, il Protocollo del 2005, aggiuntivo alla Convenzione di Roma del 1998, ha per oggetto il traffico di armi di distruzione di massa o di sostanze radioattive. Manca invece una convenzione contro il traffico di armi convenzionali. Ovviamente uno Stato costiero può fermare una nave dedita al traffico di armi qualora essa si trovi nelle sue acque territoriali. Per quanto riguarda la zona contigua lo Stato costiero ha diritto di fermare la nave qualora il trasporto di armi concretizzi una violazione delle leggi doganali.
La repressione penale
Quello della repressione penale nei confronti dei pirati catturati si è rivelato, sin dall’inizio della crisi del Corno d’Africa, come problema di non facile soluzione. Apparentemente l’art. 105 della Convenzione sul diritto del mare è chiaro quando stabilisce che “Nell’alto mare o in qualunque altro luogo fuori della giurisdizione di qualunque Stato, ogni Stato può sequestrare una nave o aeromobile pirata o una nave o aeromobile catturati con atti di pirateria e tenuti sotto il controllo dei pirati; può arrestare le persone a bordo e requisirne i beni.” La norma configura un’ipotesi di esercizio discrezionale della giurisdizione nel senso che non stabilisce né un obbligo di giudicare i responsabili di atti di pirateria né quale Stato sia obbligato a farlo. In teoria il principio applicabile sarebbe dovuto essere quello secondo cui lo Stato che cattura i pirati nel corso di un’azione di interdizione ha il dovere di giudicarli salvo che un altro Stato (quale ad esempio quello di bandiera del mercantile assalito o quello di appartenenza dei marittimi attaccati) ne chiedesse l’estradizione. In questo modo si sarebbe data applicazione al principio dell’“aut dedere aut judicare” – presente nel citato Protocollo del 2005 sul terrorismo marittimo – in modo da non creare un vuoto giudiziario e quindi un’area di possibile impunità. La genericità del testo della Convenzione sul diritto del mare non è stata smentita dalle risoluzioni del CdS, che hanno invece preferito adottare una soluzione altrettanto generica. È stato così che sin dalla prima risoluzione 1816 (2008) è stato fatto appello a tutti gli Stati ed in particolare “gli Stati di bandiera, dei porti o rivieraschi, gli Stati della nazionalità delle vittime o dei perpetratori di atti di pirateria o rapina armata, e altri Stati con giurisdizione rilevante in base al diritto internazionale e alla legislazione nazionale, di cooperare nel determinare la giurisdizione”. Il carattere aperto della formula adottata dal CdS ha ancor più accentuato la discrezionalità degli Stati nel non esercitare giurisdizione, consentendo però la soluzione, poi realizzata con accordi tra l’UE e il Kenya, le Seichelles e Mauritius per il trasferimento extragiudiziale (al di fuori quindi di qualsiasi procedura di estradizione) dei pirati catturati dalle forze navali. Peraltro solo l’Italia, con la legge n. 100/2009, ha formalmente regolamentato l’applicazione di questi accordi UE, prevedendo una riserva di giurisdizione nazionale qualora ad essere offesi siano cittadini e beni italiani.
Ad accrescere la difficoltà di affrontare il problema vi era anche il fatto che la pirateria non era un reato per molti Stati (mentre il nostro Paese lo prevedeva già nel Codice della Navigazione del 1942). Di qui l’azione svolta dalle Nazioni Unite, sia con proprie risoluzioni che nell’ambito del Gruppo di Contatto sulla Pirateria al largo delle coste della Somalia (Contact Group on Piracy off the Coast of Somalia, CGPCS) istituito con la risoluzione 1851, per far sì che tutti gli Stati ponessero le premesse legislative per la repressione della pirateria. La recente risoluzione 2020 (2011) ha inoltre richiamato gli Stati ad emanare norme punitive relative non solo agli autori degli atti di pirateria ma anche ai loro mandanti e complici.
Dall’esame delle statistiche elaborate dal Working Group 2 del CGPCS risulta che su circa 1.000 pirati catturati solo 500 sono stati sottoposti a procedimento. Tra gli Stati che hanno proceduto giudiziariamente vi sono, oltre agli USA, alcuni Paesi europei come Paesi Bassi, Germania e Francia, oltre a Kenya e Seychelles, ciascuno dei quali ha condannato 50 pirati, nonché il Puntland (290 condanne) e il Somaliland (94 condanne), la regione separatista della Somalia nordoccidentale. Un procedimento penale è attualmente in corso in Italia contro pirati somali che hanno attaccato una nave italiana. Il dato relativo all’alto numero di procedimenti somali potrebbe sembrare positivo. Di fatto esso costituisce il vero cuore del problema poiché non vi è alcuna evidenza né del modo con cui si sono svolti i procedimenti né della reale applicazione della pena. Dopo numerose iniziative diplomatiche che avevano ipotizzato la creazione di tribunali internazionali e dopo la missione dell’inviato speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite Jack Lang, con la citata risoluzione 2020 si è giunti finalmente ad immaginare forme di giurisdizione regionale, a standard occidentali, o con la creazione di Corti speciale somale in Puntland o in altre sedi federali, o di tribunali somali delocalizzati in altri Stati africani come la Tanzania. I tempi previsti sono tuttavia lunghi; oltre a costruire le prigioni ed a formare il personale giudiziario, è necessario che le istituzione somale emanino le norme penali da applicare. In attesa che la giustizia somala cominci a funzionare, c’è da chiedersi perché nessuna risoluzione abbia affrontato la questione del mancato esercizio della giurisdizione da parte degli Stati di bandiera di mercantili attaccati, qualora appartenenti alla categoria delle “bandiere ombra”. In realtà, se si guardano le statistiche ufficiali della pirateria, si nota che la gran parte delle navi assaltate appartengono a Paesi ai primi posti nelle classifiche mondiali dello shipping come Panama, Liberia, Isole Marshall, Cipro e Malta; nessun procedimento penale risulta però essere mai stato aperto dagli stessi Paesi.
Le best practices e le line-guida dell’IMO

Maritime Safety Committee Circular 622 Piracy and Armed Robbery Against Ships: Recommendations to Governments for preventing and suppressing acts of piracy and armed robbery against ships Maritime Safety Committee Circular 623 Piracy…: Guidance to shipowners and ship operators, shipmasters & crews on preventing… m. mejia – maritime security seminar, bth, karlshamn, 16 october 2007.
L’IMO, con sede a Londra, è l’organizzazione internazionale direttamente interessata al fenomeno della pirateria. L’IMO, però, non non può adottare atti giuridicamente vincolanti nei confronti degli Stati e tanto meno nei confronti delle persone fisiche o giuridiche operanti le compagnie di navigazione. L’IMO, alla pari di altre organizzazioni internazionali, può comunque predisporre progetti di convenzione, che poi sono sottoposti ad una conferenza internazionale ed adottate, qualora vi sia il consenso necessario, dagli Stati. Di rilievo, nel settore della pirateria, è uno degli organismi dell’Organizzazione, il Comitato sulla Sicurezza Marittima (Maritime Safety Committee). Il Comitato ha raccomandato varie misure attraverso l’adozione di “circolari” per far fronte alla pirateria. La policy dell’IMO è di non ricorrere all’uso della forza da parte delle navi commerciali per contrastare la pirateria, poiché questo comporterebbe il rischio di un’escalation difficilmente controllabile. L’IMO ha quindi raccomandato misure non violente suggerendo difese non letali, quali barriere di filo spinato lungo il bordo delle navi, l’uso di idranti o il rifugio dell’equipaggio in un castelletto impenetrabile. Ma tali rimedi si sono rivelati inefficaci. Anche l’Italia aveva fino a poco tempo fa sconsigliato scorte armate a bordo delle navi. La situazione è da ultimo mutata. Su pressione degli armatori aderenti all’IPTA (International Parcel Tanker Association), il Comitato sulla Sicurezza Marittima dell’IMO ha adottato due circolari, nel maggio scorso, relative all’impiego di personale armato a bordo delle navi (MSC. Circ. 1405 e MSC. Circ. 1406, ambedue del 23 maggio 2011).

Best Management Practice, giunto ormai alla 4 versione, è un manuale redatto per fornire direttive/suggerimenti contro la pirateria nell’area somala
Tali documenti sono stati esaminati a Londra dal Gruppo di Lavoro sulla sicurezza marittima e la pirateria, a partire dal 12 settembre. L’IMO, pur non sposando la causa di agenti di sicurezza armati privati (contractors) a bordo delle navi, ha ammorbidito la sua iniziale ostilità all’uso della forza. Le circolari adottate il 16 settembre 2011 in seguito alla riunione di Londra (MSC.1/Circ. 1405/Rev. 1; MSC.1/Circ. 1406/Rev. 1/ MSC.1/Circ. 1408) contengono il materiale cui i governi e gli armatori possono ispirarsi per una disciplina del fenomeno. A livello regionale l’IMO ha promosso la conclusione di un Codice di condotta per la repressione degli atti di pirateria e rapine a mano armata contro navi (2009), di cui si parlerà successivamente.
Tentativi di approccio regionale
Gli sforzi di sviluppare le capacità marittime degli stati del Corno d’Africa non hanno sinora avuto esito favorevole nonostante il tema sia ricorrente nelle risoluzioni del CdS e benché sia stato adottato da parte dell’IMO uno strumento dedicato. Questo è il Djibuti Code of Conduct del 2009 sottoscritto da Comoros, Gibuti, Egitto, Etiopia, Francia, Giordania, Kenia, Madagascar, Maldive, Oman, Arabia Saudita, Seychelles, Somalia, Sudafrica, Sudan, Tanzania e Yemen. Con il Djibuti Code of Conduct gli Stati che si affacciano sul Corno d’Africa si sono impegnati a:
- condividere le informazioni;
- intercettare le imbarcazioni sospette di pirateria;
- assicurare la sottoposizione a procedimento giudiziario degli autori di atti di pirateria;
- curare le condizioni dei marittimi assaliti.
Come si vede il Codice doveva essere, nelle intenzioni della comunità internazionale, lo strumento per consentire agli Stati della regione una piena responsabilità nel contrasto alla pirateria. L’Italia si era mossa in questa direzione finanziando, con fondi della cooperazione, un progetto di 30 milioni di euro (da completarsi quando la situazione politica dello Yemen si stabilizzerà) per l’addestramento della Guardia costiera yemenita e l’installazione di una rete di sorveglianza del traffico marittimo. Da ultimo la risoluzione 2020 ha richiamato l’importanza dello sviluppo di capacità regionali di pattugliamento costiero. A differenza di quanto avvenuto nel Golfo di Guinea dove forme di pattugliamento congiunto sono state già avviate da Nigeria e Benin, nel Corno d’Africa permangono frizioni e riserve che impediscono l’avvio di una cooperazione marittima strutturata. Probabilmente sarebbe necessario affidare ad una delle forze internazionale di pattugliamento il ruolo di addestrare il personale delle Marine/Guardie costiere regionali. La NATO ad esempio, con l’operazione Ocean Shield, si è già assunta questa funzione nei confronti del Puntland.
Fine Parte II – continua
Fabio Caffio
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Vi invito ad una attenta lettura di tutte le quattro parti ed a visitare il documento dello IAI che contiene anche un addendum del Professor Natalino Ronzitti.
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Ammiraglio della Marina Militare della Riserva tra i maggiori esperti di diritto internazionale marittimo italiani. Autore di vari articoli in materia, pubblicati su numerosi siti specialistici, ha pubblicato il saggio “Elementi di diritto e geopolitica degli spazi marittimi” scritto in collaborazione con A. Leandro e N. Carnimeo e, il “Glossario del Diritto del Mare” (Rivista Marittima, IV ed., 2016) ancor oggi un riferimento per gli studiosi della materia
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