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L’Assedio di Malta del 1565, dalla caduta di S. Elmo all’assalto della Senglea – parte V di Gabriele Campagnano

tempo di lettura: 6 minuti

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livello elementare
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ARGOMENTO: STORIA NAVALE

PERIODO: XVI SECOLO
AREA: MAR MEDITERRANEO
parole chiave: Malta, assedio
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I Turchi tentano ancora i Maltesi con vantaggiose proposte di resa, ma la risposta rimane la stessa: “Il Popolo fra mille stenti volentieri morrebbe, anziché mettersi sotto lo stendardo dell’aborrita mezzaluna.” Il grande assalto si fa imminente. Hassan è pronto a guidare le truppe via terra, mentre un suo ufficiale, il vecchio corsaro Candelissa, quelle di mare. Pialì Pascià ha invece il compito di tenersi pronto con le sue 60 galee, trasportate all’estremità più lontana dell’insenatura del Grande Porto.

Pialì Pascià

All’alba del 15 luglio, inizia il cannoneggiamento generale. Hassan porta i suoi verso S.Michele, mentre  Candelissa appronta decine di navi di ogni dimensione per tentare lo sbarco sui lidi protetti dalla palizzata. Le lodi ad Allah assordano i difensori, mentre Mustafà osserva l’azione dalla collina di Corradino. La palizzata impedisce lo sbarco lungo tutta la costa interna della Senglea, ma un migliaio di Giannizzeri riesce ad approdare sullo sperone, ossia sulla punta della penisola. Candelissa, onde evitare una ritirata dei suoi, ha scelto i soldati fra coloro che non sanno nuotare.

Sulla punta dell’altra penisola, quella di Borgo, il Cavaliere De Guiral presidia una delle batterie di S. Angelo. Dall’arrivo dei Turchi, ormai quasi due mesi prima, non ha ancora sparato un colpo. Quel giorno però, osserva con attenzione le manovre turche. Impedisce ai suoi artiglieri di far fuoco subito e chiede loro di caricare i cinque cannoni a sua disposizione con pezzi di ferro, catene e mitraglie. 

De Guiral attende che tutte e dieci le imbarcazioni turche abbiano completato le operazioni di sbarco. Quando mille giannizzeri si ammassano sulla punta scogliosa della Senglea, De Guiral ordina di fare fuoco con tutti i pezzi. Palle di piombo, catene e chiodi investono in pieno giannizzeri e imbarcazioni. È una carneficina. In cinque minuti ne muoiono 800 e tutte le imbarcazioni, tranne una, finiscono a picco.

Nonostante questo, uno sfortunato evento rischia di far cadere la punta della Senglea. Un soldato di galera cristiano, tale Ciano, accende per sbaglio una pignatta infuocata e, impaurito, la getta via; la pignatta finisce nel mucchio delle altre pignatte provocando una deflagrazione che, pur facendo pochi morti, crea una grande scompiglio in quella sezione dei bastioni.

candelissa assalto malta

Lo sventurato sbarco di Candelissa

Candelissa riesce a sbarcare altri dei suoi, che arrivano a ridosso delle mura (dove i cannoni di S.Angelo non possono più colpire senza rischiare di uccidere anche i difensori) e li spedisce all’assalto dicendo loro che le forze di Hassan, dall’altro lato della Senglea, sono già entrate in città e hanno iniziato il saccheggio senza di loro. I Turchi salgono sulla mura, ma i Cavalieri, guidati da D’Aux e coadiuvati da centinaia di giovani maltesi armati di pietre e fionde, riescono a respingerli.

Federico di Toledo, figlio del Vicerè, viene però colpito a morte. I Turchi inizialmente ritentano la scalata, ma alla fine si sparge la voce che Candelissa li ha ingannati (ossia che gli uomini di Hassan non hanno, in realtà, fatto breccia), e il loro furore si spegne, anzi, si rivolge verso Candelissa, che viene accusato di essere solamente un rinnegato greco e bugiardo. Nella confusione della ritirata, i Turchi si gettano sulle poche barche rimaste, ma sono colpiti duramente dagli archibugeri sulle mura, dai sassi (le donne rifornivano continuamente i frombolieri), dagli ordigni incendiari e, infine, dai cannoni di S. Angelo, che tornano a tuonare. Lasciando solo poche vedette sul lato verso il mare, tutti i difensori corrono dall’altro lato della Senglea, dove le forze dei Cavalieri, comandate dal Cav. Ricca e dal Cav. De Robles, resistono con grande difficoltà.

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Il fuoco della Batteria di De Guiral (da www.militaryarchitecture.com)

Qui Hassan, perso l’impeto iniziale, abbandona gli assalti e affida il comando all’Agà dei Giannizzeri. Arriva anche Mustafà, che ha appena osservato il disastro delle forze di Candelissa. Dagli spalti i difensori si fanno coraggio urlando: “Nessuna pietà, ricordate S.Elmo!“. Dopo sei ore di battaglia, Mustafà fa suonare la ritirata, mentre i soldati maltesi sono trattenuti a stento dall’inseguire il nemico fuori dalle mura. Allo sperone (la parte di Senglea verso il mare) i difensori hanno perso poche decine di uomini; sul fronte interno invece sono morti 42 cavalieri e 200 soldati (mercenari e maltesi). Per i Turchi le cose sono andate molto peggio, visto che all’appello mancano più di 3.000 soldati e, cosa da non sottovalutare per il morale, ben otto stendardi, che il Gran Maestro fa appendere al contrario nella Chiesa di S. Lorenzo. Sperando almeno di disturbare il sonno dei difensori, Mustafà ordina un cannoneggiamento generale notturno sulla Senglea, ma i maltesi (come ogni notte) non gli danno peso e si calano dalle mura per saccheggiare vesti di sete e gioielli dai cadaveri dei Giannizzeri. La Valette scrive subito al Vicerè, sperando che la notizia della vittoria lo spinga a inviare almeno gli aiuti che, pochi giorni prima, non si erano potuti avvicinare. Le comunicazioni però, con i Turchi che controllano tutta la zona a ridosso di Borgo e Senglea, sono complicatissime. Ogni messaggio del Gran Maestro deve prima giungere alla Notabile, dove Mesquita si occupa di inviarlo in Sicilia. Bajada, il maltese turcofono impiegato di solito, non può più essere impiegato. Quando era stato schiavo infatti, il suo padrone turco gli aveva mozzato un orecchio e un servo del Cav. Romegas, fuggito dal Borgo, è in grado di riconoscerlo.

La Valette affida quindi quattro copie della missiva ad altrettanti valorosi maltesi, che si impegnano ad attraversare a nuoto il Porto Grande per poi raggiungere a piedi la Notabile. Tre di loro sono catturati, torturati e uccisi, ma riescono a disfarsi delle lettere nelle imminenze della cattura, mentre il quarto riesce nell’impresa.

Il 16 Luglio, Mustafà osserva con orgoglio il posizionamento dell’enorme ponte di assi sopra il fossato davanti alla Senglea. I Cavalieri sono preoccupati, perché ci sono diverse brecce nelle mura e il ponte permetterebbe ai Turchi di avanzare in massa o piazzare delle mine sotto le mura. Il fuoco incrociato delle artiglierie dell’Ordine non riesce a colpire il ponte, posizionato in modo ottimale dagli ingegneri turchi. L’unico modo per colpirlo è dalla sezione di mura perpendicolare a esso. Gli ingegneri maltesi e i Cavalieri studiano, nel giro di poche ore, una rischiosissima contromossa. L’idea è quella di calare due gomene ai lati del ponte assieme a un manipolo di soldati, i quali dovranno legare le gomene sotto il ponte e permettere così di rovesciarlo tramite gli argani all’interno della fortezza. Il nipote di La Valette, giunto con il Piccolo Soccorso, si offre volontario per guidare la spedizione notturna. I Turchi però sono lì ad aspettarli e li massacrano tutti. La notizia giunge immediatamente a La Valette, che non versa (almeno in pubblico) una lacrima, e anzi, giunta la mattina, tiene un discorso in onore del nipote in cui narra di come sia “bello e onorevole morire da prode per la fede“.

Ma non c’è tempo neanche per le esequie: quel ponte è un pericolo troppo grande. Il Gran Maestro spedisce quindi l’ingegnere maltese Evengelista Menga e l’allievo Girolamo Cassar a concordare con il Cav. Robles (a capo del Piccolo Soccorso) un modo per distruggere l’opera turca. Le sue ultime parole prima di lasciarli andare sono: “Non mi tornate d’innanzi senza aver distrutta quell’opera!”. Gli ingegneri si mettono quindi al lavoro.

fine parte V –  continua

Gabriele Campagnano

articolo pubblicato originariamente su http://zweilawyer.com

 

 

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