livello medio
ARGOMENTO: MEDICINA SUBACQUEA
PERIODO: XXI SECOLO
AREA: STUDI
parole chiave: medicina subacquea, fisiologia, branchie artificiali
Ricorderete sicuramente la scena del film “The Abyss” di James Cameron quando il sommozzatore “Bud”, che deve raggiungere l’incredibile profondità di 7500 metri per recuperare una bomba nucleare, usa del liquido respirabile per scendere negli abissi senza subire gli effetti della forte pressione. Per l’immersione il subacqueo utilizza uno scafandro sperimentale che, anziché usare una miscela di gas, sfrutta un’emulsione ossigenata di fluoro e carbonio.
Fantasia? Solo fantascienza?
La respirazione fluida e i sistemi di branchie artificiali costituiscono una parte estremamente interessante ed affascinante sulla possibile evoluzione dell’immersione umana. L’idea di “estrarre” l’ossigeno dall’acqua, per consentire la respirazione, è relativamente recente. Nel 1962, durante prove sperimentali in laboratorio effettuate su cavie animali, Kylstra, Tissing e Van der Maen scoprirono che una gatta adulta rimaneva in vita per più di diciotto ore se sottoposta alla respirazione di una soluzione di sale bilanciata, insufflata a 20 ° C, equivalente all’ossigeno ad una concentrazione di otto ata.
Johannes Kylstra, un fisiologo alla State University di New York a Buffalo, riconobbe che l’insufficienza della rimozione di CO2 non poteva essere superata semplicemente aumentando il differenziale di pressione del gas disciolto, e scoprì che le soluzioni saline potevano essere saturate con ossigeno ad alta pressione. Le cavie di Kylstra sopravvissero ad enormi sbalzi di pressione della durata di alcuni secondi, apparentemente senza avere problemi (Kylstra J. A. “Liquid breathing.” Undersea Biomed Res 1974 September 1(3):259-69).
Da quelle esperienze nacque l’idea di un liquido respiratorio; questa scoperta, se fosse stata applicata all’Uomo, avrebbe comportato notevoli vantaggi operativi in quanto si sarebbe superato il problema della malattia da decompressione, eliminando il gas inerte diluente nei tessuti e nel sangue. Il sommozzatore, nei cui polmoni sarebbe stata presente solamente un’aggregazione fluida, avrebbe quindi potuto riemergere in qualsiasi momento ed alla velocità desiderata senza timore della formazione di bolle nei suoi tessuti. A di là delle esperienze di laboratorio, condotte da Kylstra, queste ricerche e argomentazioni sono rimaste per le immersioni subacquee sostanzialmente accademiche in quanto l’applicazione sull’Uomo della “respirazione fluida” avrebbe comportato problemi di non semplice soluzione per la bioingegneria quali la termoregolazione corporea e l’eliminazione del biossido di carbonio.
Il problema della respirazione subacquea senza limiti di tempo e profondità è stato affrontato negli anni anche con mezzi diversi mediante la realizzazione di apparecchi di respirazione subacquea innovativi, sostanzialmente delle “branchie artificiali”. Sostanzialmente si pensò di sfruttare materiali con caratteristiche di permeabilità ai gas e all’acqua per la realizzazione di membrane semipermeabili che consentissero la diffusione del gas tra il subacqueo e l’acqua circostante. Nel 1965 l’americano Walter Robb riuscì a separare l’ossigeno contenuto nell’acqua impiegando delle speciali membrane in silicone-caucciù ed utilizzare l’ossigeno “estrapolato” dall’acqua per far respirare delle cavie di laboratorio. Alcune fonti (non confermate) riferiscono che con queste membrane sia stato realizzato anche un apparato subacqueo effettivamente utilizzato da un subacqueo per un’immersione di oltre un ora.
Nel 1966 Leland Clark, il geniale inventore dell’Elettrodo di Clark, uno strumento per misurare l’ossigeno nel sangue, in acqua e in altri liquidi, scoprì che ossigeno e biossido di carbonio sono particolarmente solubili nei perfluorocarburi (PFC). I PFC sono degli idrocarburi sintetici inerti in cui gli atomi di idrogeno sono stati sostituiti da atomi di fluoro o bromo. La loro elevata capacità di sciogliere O² e CO² li ha fatti considerare come possibili sostituti dei globuli rossi. Tra di essi va citato, come emulsione endovenosa, l’Oxycyte che può trasportare fino a cinque volte più ossigeno dell’emoglobina, rendendolo un mezzo efficace per trasportare ossigeno ai tessuti e trasportare anidride carbonica ai polmoni per lo smaltimento. I PFC mostrano un quarto della tensione superficiale, sedici volte la solubilità dell’ossigeno e tre volte la solubilità dell’anidride carbonica dell’acqua. Poiché l’ossigeno e l’anidride carbonica si dissolvono così facilmente in questo liquido, è quindi un mezzo eccellente per trasportare l’ossigeno. Solo una piccola parte del liquido respiratorio altamente ossigenato deve essere estratto nel circolo respiratorio per raggiungere la concentrazione richiesta di O2 nel sangue. Clark dimostrò che era possibile fornire ossigenazione in certe condizioni ad animali totalmente immersi in un perfluorocarburo.
In campo medico esistono oggi due tipi di ventilazione del fluido: Ventilazione parziale del liquido (VLP) consistente nel riempire parzialmente i polmoni e nell’uso parallelo di un respiratore artificiale convenzionale (per la ventilazione del gas). Il VLP è stato oggetto di ricerca clinica per diversi anni e, riempendo completamente i polmoni, è la ventilazione più efficace. Total Liquid Ventilation (VLT) prevede il riempimento completo dei polmoni con il fluido. Il VLT è più difficile da implementare rispetto al VLP: richiede l’uso di un respiratore artificiale adattato ai liquidi che fa che sia ancora in fase di progettazione. L’uso medicale dei fluidi respiratori trova diversi campi di applicazione; ad esempio il Perflubron, anche chiamato da Alliance Pharmaceutical “Liquivent” viene impiegato iniettandolo direttamente nei polmoni nel caso di trattamento di pazienti con gravi difficoltà respiratorie. Può quindi essere utilizzato in pneumologia per infezioni, inalazioni di sostanze tossiche o gravi ustioni e nel campo della rianimazione neonatale di neonati prematuri. E nella subacquea? Gli studi proseguono ma la ventilazione con fluidi come i perfluorocarburi rimane ancora una possibilità solo ipotetica. |
Nello stesso anno il Dr. Ayres realizzò un sistema dotato di una membrana per gli scambi gassosi ed una fonte di aria compressa per aggiungere gas al sistema per evitare l’”afflosciamento” delle branchie artificiali e il collasso del torace del subacqueo quando sottoposto ad un aumento della pressione idrostatica. L’apparato venne descritto come una sorta di radiatore realizzato con coppie di membrane da 116 cmq spesse 1/25 mm e formanti serbatoi tubolari di gas del diametro di 16 mm. Quarantotto di questi tubi alti 30 cm costituivano un totale di 20 mq. di membrane permeabili esposte all’acqua. L’aria espirata dal subacqueo attraversava i compartimenti riempiti di gas ed il flusso dell’acqua, generato dal nuoto, attraversava le membrane apportando ossigeno “fresco”.
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progetto di artificial gill di Bruce Bodell del 1967 US3333583A – Artificial gill – Google Patents
Il sistema presentava però due svantaggi; a parte il fatto di dover nuotare continuamente per rifornire di ossigeno il sistema, vi era il problema della notevole dispersione del gas inerte nell’acqua circostante dovuta all’eccessiva diffusione attraverso le membrane del sistema. Infatti queste membrane, permeabili all’O2 e alla CO2, risultavano permeabili anche ai gas inerti.
Come sappiamo dalla fisica, a causa dell’aumento della pressione idrostatica, la pressione parziale dei gas in acqua (e quindi nel caso di un miscuglio di gas respirabili anche dei gas inerti componenti la miscela) è ovviamente maggiore che in atmosfera. Più ci si immerge in profondità, maggiore è la pressione totale e, di conseguenza, maggiore è la pressione parziale degli inerti sulle artificial gill. Di conseguenza, non essendo le membrane impermeabili all’inerte, avviene la diffusione di questi gas nell’acqua circostante. Queste “perdite” richiederebbero continue aggiunte di gas, proporzionali sia al consumo di ossigeno metabolizzato dal subacqueo sia alla profondità di utilizzo del sistema. Anche si si riuscisse a trovare una membrana assolutamente impermeabile all’inerte, il subacqueo continuerebbe a perdere gas attraverso la propria pelle con conseguente “afflosciamento” delle branchie artificiali. Per ovviare si dovrebbe quindi compensarle con continue aggiunte di gas nel sistema.
Nel 1984, durante il VI° congresso della Società Italiana di medicina Subacquea e Iperbarica (SIMSI) tenutosi a Napoli due ricercatori americani, Joseph e Clelia Bonaventura, illustrarono un sistema di “branchie artificiali” ideato a seguito di un approfondito studio sulla respirazione dei pesci attraverso le branchie.
Il sistema si basa su un procedimento sostanzialmente chimico. I ricercatori sintetizzarono un prodotto chiamato “emospugna”, costituito da una sostanza sintetica porosa sulla quale veniva fatta reagire in maniera stabile emoglobina di estrazione animale. In questo modo era possibile ricavare dal mare un quarto di litro di ossigeno all’ora, molto meno dei due litri che a un uomo servono per poter sopravvivere sott’acqua.
L’emospugna era idealmente contenuta in due cilindri simili alle normali bombole da subacquei. L’acqua di mare veniva fatta passare forzatamente attraverso l’emospugna per mezzo di una pompa aspirante. L’emospugna captava quindi l’ossigeno e, mediante reazioni chimiche, lo cedeva al sub in forma gassosa. Una sacca posta sul torace del subacqueo riceveva attraverso un tubo l’ossigeno così ottenuto e da questa passava alla maschera per la respirazione. Per quanto di conoscenza il sistema è tuttora in fase di sperimentazione per poterne ridurre le dimensioni.
Nel 2007 l’ingegnere israeliano Alon Bodner ha realizzato, nell’ambito del BioSub Project, un sistema composto da due pompe, nel quale la prima crea un “vortice” d’acqua mentre l’altra una zona di bassa pressione. Il sistema estrae dall’acqua, per differenza di pressione, una miscela di gas respirabile composta dal 34% di ossigeno, 60% azoto e 6% biossido di carbonio. Il prototipo aveva un ingombro simile ad un normale monobombola sub ma presentava lo svantaggio di una minore autonomia in immersione, pur “svincolando” il subacqueo dalla ricarica di gas come per i normali sistemi s.c.u.b.a. In altre parole Alon Bodner, con la sua invenzione denominata “Like a Fish” (brevetto statunitense n. 2004/0003811), non ha risolto ancora il problema dimensionale, ed il sistema sembra più adatto a mezzi più grandi come i sommergibili piuttosto che ai sommozzatori.
In sintesi, un sistema definitivo, che possa consentire all’Uomo di immergersi liberamente per lunghi periodi prendendo l’ossigeno di cui ha bisogno dal mare, è ancora lontano ma potrebbe forse realizzarsi in futuro con l’utilizzo combinato delle tecniche di respirazione fluida con nuovi sistemi di branchie artificiali per affrancare finalmente il subacqueo dalla riserva d’aria.
Stefano Berutti
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