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livello elementare
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ARGOMENTO: REPORTAGE
PERIODO: XXI SECOLO
AREA: CAMPI FLEGREI
parole chiave: Baia
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Quando all’alba giunsi sulle sponde dell’Averno, scendendo dalla collina che incorniciava le Villae di Marco Tullio Cicerone e dell’Augusta Agrippina, il sole colorava di gridellino il cielo di Baia. La suggestione era tale da creare impulsi soggettivi spesso indefiniti. Da quel crinale panoramico, aperto innanzi al tempio di Venere Lucrina, potevo intravedere l’incantevole seno della corrotta Pusilla Roma, illuminata dal lusso, dai vizi sfrenati, inghiottita dalle acque dissacranti, corruttrici, insidiose… afrodisiache.
Baia era un crogiolo di lussuria, una città bella, licenziosa e puttana, sempre pronta ad aprire le gambe ed a richiuderle un istante dopo per leccarsi le ferite. Se per altre località gli otia erano i preliminari, i parenti stretti del vizio e della lussuria, a Baiae rappresentavano la madre di tutte le perversioni.
Baia era la capitale di tutti i vizi, un’orgia inappagabile di sesso
Ai piedi della collina, una strada fiancheggiata da filari di pini marini, sterrata e dal fondo molto dissestato, costeggiava la selvaggia sponda orientale dell’Averno, il tempio sacro a Proserpina e il navale del Postus Julius. Poco in là il fondo era meno accidentato ed in parte ghiaioso fino all’incrocio con la Crypta di Lucio Cocceio Aucto, poi riprendeva con una salitina ad arco che passava alla sinistra del maestoso viadotto. Il viottolo si inerpicava sul fianco sud-orientale della collina, costeggiando a destra un’area boscata e spazi aperti caratterizzati da filari di Falerno, fino ad incrociare una carrareccia che svoltava a mancina sulla collinetta, da cui spiccava una perigliosa costruzione a picco sul mare.
La villa, realizzata con marmi pregiati e splendide terrazze, bella, massiccia e digradante dal colle al mare degli Dèi, era una delle poche che accompagnava lo snodarsi della strada fino a Misenum. Fino a pochi anni fa era stata la dimora dell’imperatore Claudio, uno dei tanti che amava soggiornare a Baia, prima che la sua adorata moglie Agrippina lo assassinasse con il veleno di Locusta. Dall’altra parte della spianata della collina, guardando all’Acherusio (lago Fusaro) e alla mitologica città di Cumae, c’era un’area brulla, riarsa da esalazioni mefitiche. L’aria era irrespirabile, satura del nauseante odore di uova marce. Polle di acqua solforosa calda erano sparse qua e là sul terreno privo di vegetazione e coloravano di giallo citrino le pietre circostanti, mentre da fenditure aperte nel tufo fuoriuscivano colonne di vapore ad altissima temperatura. Il volgo le chiamava mofete ed erano le ultime manifestazioni gassose dell’attività postvulcanica della Terra Ardente.
In mezzo al mare degli Dèi spiccavano l’Isola di Calypso, realizzata da Licinio Crasso Frugi, la villa che fu di Lucio e Gaio Pisone e il porto di Augusto, mentre dalla collinetta dirimpetto si stagliava la residenza privata di Nerone. Esattamente innanzi alla dorata spiaggia sacra alla “Beata Venere”, c’era il Lacus Baianus, sulle cui sponde si specchiavano i marmi ed i giardini pensili dell’antico Palazzo Imperiale della “Pusilla Roma”, oltre a un fastoso impianto termale di età repubblicana (c.d. Tempio di Mercurio).
Tutt’intorno i topiari avevano realizzato un paesaggio affrescato da giardini ornamentali, alternati da rilassanti viottoli sassosi che si snodavano tra profumate siepi di mirto e peristili, rose prenesto, statue colorate e colonne di cipollino. Poco in là, la mano geniale di un antico architetto aveva innalzato una maestosa natatio che, a ben guardare, sembrava un enorme uovo. L’interno era una meraviglia di statue, mosaici e lastre di marmo di ogni tipo e colore.
Ricordo che molti anni fa Menecrate, il medicus personale dell’imperatore Claudio, disse che “le acque di quelle sorgenti racchiuse nella natatio erano tanto salubri quanto prodigiose, al punto che anche le donne gravide ne ricevevano miracolosi benefici...”.
Un colpetto al ventre del cavallo e iniziai a scendere. Ricordavo benissimo il percorso, quindi non fui colto di sorpresa innanzi ai vari ostacoli che superai facilmente. Soltanto verso la fine, davanti a uno degli ostacoli più stupidi – un tronco di traverso al viottolo – il cavallo s’impuntò. Niente, di saltare quell’ostacolo, non ne voleva proprio sapere. Allora lo feci girare di qualche passo e con un breve “Ihaaaa!” di incitamento, e un deciso tocco di calighe al ventre, lo feci volare sull’ostacolo. Allorché giunsi ai piedi del Palatium di Baiae, smontai da cavallo e iniziai a camminare. Poco più avanti c’era una equilia, una stalla. La corte era buia e puzzolente, un misto di odore penetrante di urina e fieno. Due stallieri silenziosi, ma dai modi fin troppo servili, presero in consegna le briglie e il mio cavallo.
Era l’hora nona del giorno di Venere
Camminavo di buona lena immerso nei pensieri, quando avvertii il suono sordo delle mie calighe. Non mi ero reso conto che stavo camminando su preziosi riquadri di marmi policromi del Porticus Miliaria, una realizzazione architettonica che solo pochi eletti potevano concedersi. In quel momento, mi sentii un privilegiato. Solo allora capii che stavo calpestando il mondo assoggettato all’aquila imperiale.
Salutai Ustione, l’ostiario, il servo addetto alla porta, che mi invitò a seguirlo. Il tizio era poco più alto di Rutilio, il nano, con l’aggravante di essere grasso, stempiato e dalle orecchie a sventola. I due occhi a palla, ricoperti da spesse palpebre, si stringevano a fessura per osservare il…nulla, mentre alzava il naso a punta e stirava in un sorriso la bocca rincagnata. Ma il tizio era anche armato di buona favella e parlava gesticolando.
I miei occhi si perdevano dietro a quelle mani e ciò rendeva ancora più complicato capire qualcosa dai suoi ragionamenti irrazionali. Nel breve volgere di un battito di ciglio, disse mille cose disparate, passando dai mali dell’impero al parto travagliato di sua figlia Becca, dall’amore che provava per il giovane Patercolo ai danni causati da uno scoglio al fasciame di prua della trireme Athenonix.
In quella rapida successione di notizie, fatti e nomi alla rinfusa ebbe anche la buona creanza di includerci pure Lucilia, asserendo che si stava preparando per le terme. Qualche passo e dall’ostium entrammo nell’atrio. L’occhio si muoveva frenetico da una parte all’altra della domus, cadendo ora meravigliato sulle raffigurazioni alle pareti, ora sui tendali di stoffe pregiate o sugli scranni di legno di ciliegio. Quando finalmente entrai nella sua stanza, vidi il suo corpo circondato da un’aura di ingenuo candore che le spirava dal volto.
Era Bellissima.
Dalla candida stola modellata da mille pieghe, Lucilia si stagliava a tutto tondo nel cielo flegreo, come un’elegante ninfa da un altorilievo. Un velo di fuligo sulle palpebre ed un ombra di cinabro sulle labbra le conferivano la bellezza di Venere, facendole risaltare l’incomparabile splendore degli occhi smeraldini. Portava degli orecchini vistosi, con pendenti a forma di spicchio d’aglio e perline a margine. Erano i crotalia, che tintinnavano ad ogni suo movimento, e un bracciale all’avambraccio con due fronteggianti teste di leone. Ma ciò che più di tutto mi colpì, era una sorta di preziosa caliptra che le copriva il capo. Come il velo del tempio di Gerusalemme nascondeva alla vista l’Arca Santa, una delicata rete a granuli d’oro le fasciava i capelli, racchiudendole la ricercata acconciatura a foggia greca.
Era irresistibilmente bella. Fu in quell’istante che mi sovvenne un passo di una vecchia poesia di Gaio Valerio Catullo: “Dammi mille baci, poi cento, poi ancora mille, poi di nuovo cento, poi senza smettere altri mille, poi cento; poi quando ce ne saremo dati molte migliaia, li confonderemo anzi no, per non sapere ( il loro numero) e perché nessun malvagio ci possa guardare male, sapendo che ci siamo dati tanti baci. (Cat. Poesie – Vivamus mea Lesbia)
Lei spostò delicatamente il tendale e uscimmo sul viridario, tenendoci per mano. Da lì, da quella terrazza, forse realizzata dagli architetti Severo e Celere, lo scenario era fantasmagorico e sorprendeva la vista con un festevole avvicendarsi di luci, colori e figure dagli aspetti costantemente mutevoli. Poche erano le miglia marine che separavano la “Piccola Delo” (Puteoli) dalla “Piccola Roma”, ma uniche, memorabili. Indelebili nella memoria.
Davanti a me avevo il golfo di Puteoli, con il vulcano che dal centro della città sfumacchiava i suoi candidi effluvi maleodoranti e il Vesuvio in lontananza, a ricordarci che anche sotto i nostri piedi la dea Natura stava combattendo una pericolosissima “guerra di logoramento”. Era un conflitto che durava da millenni, tra “alti” e “bassi” guerreggiato da misteriose entità sotterranee, con eruzioni vulcaniche, innalzamenti e sprofondamenti della crosta terrestre.
Era l’epica lotta tra le oscure entità dell’Erebo ed i Giganti che, nei secoli, aveva segnato i destini Ardenti di questa Terra senza tempo… Era una guerra transitoria, dove l’Uomo può vincere qualche battaglia, ma alla fine è sempre la Natura a vincere la guerra.
La suggestione esercitata dal paesaggio e dall’insieme scenografico, proposto dalle splendide ville e dai maestosi edifici pubblici che punteggiavano il litorale, era tale da lasciare meravigliosamente esterrefatti.
Il più bel panorama al mondo era davanti a me, nei miei occhi, tra le mie braccia…nel mio cuore. Innanzi a quella divina meraviglia, mi lasciai andare e dissi: “Quand’anche lodi con mille versi Baia, litorale d’oro della beata Venere, Baia, carezzevole dono della Natura grandiosa, oh Flacco (Orazio), tuttavia non la loderò mai abbastanza.” (Marziale. Epig. XI, 80)
Ciro Amoroso
Storico della Roma antica meticoloso e preciso….. testimone del territorio Flegreo
Un ringraziamento particolare a Vincenzo De Vita per la segnalazione del racconto dell’autore.
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Molto bello! Si respira quasi l’aria di Baia