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Aquawareness: il Nuoto come strumento di consapevolezza

tempo di lettura: 10 minuti

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livello elementare

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ARGOMENTO: NUOTO
PERIODO: XXI SECOLO
AREA: DIDATTICA
parole chiave: filosofia del nuoto
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Le prime percezioni del nostro esistere avvengono ad occhi chiusi, immersi nel liquido amniotico. La materia fluida ci fornisce la prima interfaccia con il mondo, il primo contatto con la dimensione del sensibile, la prima esperienza del limite, attraverso cui si sviluppa l’embrione della nostra futura identità. In essa cominciamo a disegnare i nostri confini con l’esterno e insieme a percepire dall’interno la nostra corporeità. Ritrovare la traccia di quelle primordiali esperienze significa ritrovare il proprio primo orizzonte di esseri viventi, la nostra prima e vera lingua madre. Significa ritrovare il nostro corpo alle prese con sensazioni nuove ed insieme antiche, con libertà di movimento strane e al tempo stesso familiari, stranamente familiari e tuttavia dimenticate.

Nella mitologia indiana, Nārāyaṇa è la divinità che meglio di tutte rappresenta, a livello cosmico, il passaggio cruciale dalla potenzialità della quiete indifferenziata prenatale alla prima scintilla di coscienza individuale.

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Nella notte cosmica, Nārāyaṇa dormiva in beata spensieratezza, galleggiando sulle acque primordiali. E mentre dormiva dal suo ombelico spuntò un loto, la prima forma di vita e prima scintilla di consapevolezza, staccatasi dalla matrice universale(Mircea Eliade, Trattato di Storia delle Religioni, Bollati Boringhieri, ed. 2008) Nārāyana tiene nella mano sinistra un gambo di loto che scaturisce dal suo ombelico e sul fiore di cui è intronizzato Brahma. Rilievo Cham, Vietnam (c.700 d.C.)

Nārāyaṇa è, per gli induisti, una delle molteplici manifestazioni di Visnu, colui che presiede la notte cosmica così come Shiva è il signore dell’universo manifesto. Simboleggia lo stato di latenza che precede l’inizio di ogni Era e che inevitabilmente ne seguirà la fine. 

“Nei tempi antichi chiamavano le acque con il nome Nārā e poiché le acque erano sempre la mia ayana, la mia casa, ecco perché mi chiamavano Nārāyaṇa: (che è a casa nell’acqua). O migliore dei ri-nati, io sono Nārāyaṇa, l’origine di tutte le cose, l’eterno, l’immutabile” dal Manusmṛti, II-III sec. a.C.

A casa nell’acqua
Interessante notare come per la tradizione indiana l’acqua venga considerata l’elemento primigenio, il substrato originario, energia potenziale ancora inespressa dal quale proviene ogni forma, e che precede qualsiasi evento percepibile. A differenza della Cina taoista, più o meno nello stesso periodo o poco dopo, in cui l’acqua è percepita come modello di comportamento perfetto e sublime espressione di un mondo già fenomenico.

Non vi è al mondo nulla di più debole e cedevole dell’acqua, ma nello stesso tempo non vi è nulla che la superi nel vincere il forte e il rigido. Essa è indomabile perché a tutto adattantesi” (Tao Te King, secondo libro, par. LXXVIII. a cura di Julius Evola, 1922)

Ritrovarsi nel Nārāyana è da millenni il compito delle innumerevoli tecniche psico-fisico-meditative messe a punto, specie in Oriente, per poter riconoscere e percepire come propria “dimora”, oltre il limite del nostro corpo, anche tutto ciò che ci circonda. Lo Yoga indiano e il Tai-chi cinese sono probabilmente le vie più praticate e conosciute per “tornare a casa” ma ne esistono innumerevoli altre, sperimentate o sperimentali; sorte dal nulla o lentamente adattate alle circostanze di tempo, cultura e luogo.

In Oriente, così come in Occidente, l’immensa letteratura fiorita sull’argomento sorprendentemente non fa quasi mai riferimento a quella che dovrebbe essere considerata la via maestra, quella suggerita dall’origine e dal nome stesso di Nārāyaṇa, “colui che è a casa nell’acqua”: il nuoto, anzi il Nuoto con la N maiuscola. Quello che lo pratica, l’uomo virtuoso nel senso definito dal Tao Te King: è colui che comprende e si adatta al modello di comportamento supremo, quello dell’acqua.

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Visnu Nārāyaṇa

La mancanza di accenni al Nuoto come “via dell’acqua” nella storia della letteratura specializzata è difficilmente comprensibile. Si pensi, ad esempio, ai cultori del Tai-chi che immaginano di effettuare in acqua i propri movimenti per cercare di renderli più fluidi: non sarebbe molto più semplice e efficace, “saltare un passaggio” ed immergersi realmente? Vero è che esistono già da tempo anche le versioni “bagnate” dello Yoga (Woga/Water Yoga) e del Tai chi (Ai chi/ Aquatic Tai Chi), ma anche queste discipline, pur essendo valide sotto taluni aspetti, rimangono viziate da un presupposto iniziale molto restrittivo non sono “acquatiche native”, ma adattamenti – più o meno felici – all’ambiente liquido di ordinarie e consuete pratiche terrestri. In quanto tali, le posizioni di equilibrio vengono impostate dal praticante con un approccio fisico e mentale ancora tipicamente terrestre: ricerca di appigli od appoggi rigidi e limitati, utilizzo di strumenti didattici artificiali, sostegno di altre persone per “superare” il problema della cedevolezza dell’acqua (invece, proprio questa caratteristica costituisce l’occasione d’oro da cogliere e sfruttare appieno per “cambiare dimensione”). Il tutto, vissuto ancora sotto l’incombente condizionamento psicofisico della verticale gravitazionale, una vera e propria spada di Damocle alla quale, in condizioni ordinarie, è impossibile sottrarsi.

Manca ancora, a coloro che in acqua si comportano da terrestri, l’abbandono completo, la fiducia in Archimede e nella sua legge idrostatica. Manca evidentemente la fiducia nell’acqua. O meglio … nelle capacità di relazione tra il proprio corpo e l’ambiente circostante. È un tipo di fiducia che si raggiunge esclusivamente dopo una profonda completa conoscenza, diretta e strettamente personale, del proprio intorno.

Il nuotatore e il non-nuotatore sono divisi solo da una dimensione esperienziale. Il primo è partito, necessariamente, dai presupposti del secondo. Il quale, a sua volta, dispone di tutte le potenzialità per trasformarsi nel primomaestro Zen Daishin Besio

Dimensione esperienziale
Una dimensione non (solamente) intellettuale, e quindi assolutamente diretta, non delegabile. Se l’acqua è uguale per tutti, ogni essere umano è un unicum. Ha una sua forma propria ed è il risultato di una storia a sé. Conseguentemente lo è anche il suo rapporto con l’elemento liquido. Intimo, insostituibile e indicibile. C’è poco altro da aggiungere, per arrivare a fidarsi ciecamente dell’acqua non esistono scorciatoie. Bisogna ri-conoscerla, bagnarsi, immergersi ma anche galleggiare, affondare, riemergere, scivolare, ruotare, tuffarsi, fare delle capriole, adagiarsi sul fondo. Insomma bisogna ritornare a giocare felicemente nell’acqua e con l’acqua, cercando di carpirne, a poco a poco, i (trasparenti) segreti.

Dimenticando e destrutturando, stavolta, le abilità motorie complesse spesso a torto considerate acquisite come le tecniche di nuotata (apprese talvolta troppo velocemente o solo meccanicamente, senza concedersi il tempo di percepire né l’acqua né il corpo); tralasciando le tabelle di allenamento, le calorie da bruciare, il numero delle vasche da percorrere; mettendo via, almeno per un po’, tutti quegli inutili orpelli che inquinano e disturbano il rapporto esclusivo tra noi e il fluido (divenuti oramai innumerevoli: dalle pinne ai galleggianti, alle custodie impermeabili degli smartphone, passando per le radio cuffie,  gli smartwatch e le varie applicazioni fitness. Se possibile, lasciando anche gli occhialini e le cuffie sul bordo vasca).

Dopo esserci finalmente spogliati di ogni accessorio o programma, entrando in acqua proviamo innanzitutto a…non fare nulla! Cerchiamo innanzi tutto di rimanere fisicamente passivi mentre il fluido agisce sul nostro corpo. La passività costituisce il primo e più importante passo nel processo di conoscenza dell’acqua. Equivale all’ascolto dell’altro nei rapporti umani.

Negli esercizi presentati è la spinta idrostatica che agisce “come Archimede comanda”, per riportare a galla le nuotatrici che sono state filmate. Quasi certamente, tutti coloro che hanno una certa dimestichezza con le attività natatorie avranno vissuto le stesse esperienze soprattutto in età infantile; ma è estremamente probabile che, presi dalla foga del gioco o da un obiettivo agonistico più seducente, ne abbiano dimenticato i preziosi insegnamenti.

Almeno a livello cosciente. Lo dimostrano, ad esempio, gli innumerevoli bagnanti “ancora terrestri” che si producono in azioni propulsive goffe e assolutamente superflue, sia con le gambe sia con le braccia, per cercare di “rimanere fermi sul posto” in acqua alta …

… questo quando basterebbe galleggiare staticamente, senza agitarsi. Le posizioni sono potenzialmente infinite; e molte di queste sono anche estremamente confortevoli …

Nel corso delle loro prime esperienze acquatiche, ai bagnanti “ancora terrestri” è mancato, nei momenti cruciali dell’apprendimento il giusto atteggiamento mentale. O meglio… la giusta presenza mentale. Potremmo definire questo termine-chiave come un vero e proprio comune denominatore tra il Nuoto e la meditazione.

Aquawareness ovvero la consapevolezza in acqua
Applicando una corretta presenza mentale, ogni ingresso in acqua può trasformarsi in una validissima occasione per aumentare il proprio grado di consapevolezza, trasformando il bagno in una vera e propria forma di meditazione galleggiante. Una consapevolezza a doppia valenza: in acqua e dell’acqua, l’Aquawareness

È bene chiarire immediatamente che la presenza mentale, come forma di meditazione, NON ha assolutamente nulla a che fare con gli stati di assorbimento, estatici o mistici, al di là dell’ordinario e del vissuto quotidiano. Anzi. Tutto il contrario, la pratica richiede come requisito di base la massima lucidità sensopercettiva. Nulla di trascendente, quindi, e nulla che non sia del tutto trasparente.

Semplificando, la presenza mentale può essere bipartita nelle due fasi ricettiva (chiamata fase della pura attenzione) ed attiva (denominata fase della chiara visione). Nella fase ricettiva si tratta “semplicemente” di rimanere estremamente attenti e concentrati durante le esperienze vissute e osservate al fine di acquisire la chiara e sicura consapevolezza di ciò che realmente avviene fuori di noi e in noi quando c’è interazione tra noi e il nostro intorno. Per facilitare la pura attenzione, al principiante si raccomanda sempre di ridurre l’esperienza al livello più elementare ed essenziale possibile.

Riprendiamo, in proposito, l’esempio descritto nei video dei “rimbalzi”. Per bambini e adolescenti (e qualche adulto) sarebbe più che naturale trasformare l’esperienza in un gioco “a chi ne fa di più” con tanto di squadre, classifiche, e sfottò; possiamo facilmente immaginare i partecipanti impegnati creativamente per trovare strategie, regole, trucchi e sotterfugi idonei per vincere le sfide, con i compagni, gli avversari … e soprattutto, con loro stessi. Certamente, in situazioni ludico-competitive, si guadagnerebbe molto in termini di puro divertimento… però quasi sicuramente, a causa della focalizzazione dell’interesse dei partecipanti verso l’obiettivo della “vittoria” e dello spostamento delle loro risorse di pensiero verso l’area dell’ingegno organizzativo si perderebbero di vista almeno tre/quattro elementi di osservazione, o di pura attenzione:

La posizione raccolta “a uovo”, con le gambe abbracciate, assicura l’impossibilità di compiere dei gesti propulsivi di qualsiasi genere; conseguentemente la risalita è determinata solo dalla spinta dell’acqua ed il corpo tende sempre a ruotare per mantenere la parte più leggera (i polmoni) verso l’alto. Non si riaffiora naturalmente con i piedi, ma con la schiena e la testa. Soprattutto con i polmoni pieni d’aria, a parità di forma (ma non di volume) l’acqua riporta velocemente i corpi a galla, con i polmoni svuotati molto meno, quando non li lascia direttamente sul fondo.

Queste registrazioni obiettive, proprio come in ogni esperimento scientifico che si rispetti, non dovrebbero mai essere alterate da valutazioni qualitative o dai pregiudizi emotivi ed intellettuali, o dalle aspettative prestazionali, che spesso (e più o meno consapevolmente) ci portiamo dietro e che distolgono l’attenzione dai fatti in sé che dovremmo considerare “nudi e crudi”.

Quando parliamo di “meditazione basata sulla presenza mentale”, non intendiamo allora nulla di difficile né di misterioso. Parliamo invece di un livello di consapevolezza raggiungibile, in acqua, anche dai bambini in età scolare. Anche i piccoli allievi, se ben guidati da un bravo istruttore che, avendo cura di mantenere sempre attiva la loro presenza mentale, trasformi ogni loro esperienza acquatica nella forma di un gioco divertente, potranno essere in grado di passare tranquillamente senza difficoltà da un’attenzione vaga iniziale (“guarda, Jacopo e Matteo stanno giocano a “palla che rimbalza!”), a quella più dettagliata (“ma non si muovono per nulla, eppure tornano sempre su) e poi, richiamando le situazioni analoghe, si confronteranno con il proprio vissuto (“ci ho provato anche io, funziona), generando dapprima il pensiero associativo (“se trattengo il respiro torno su più velocemente”) e infine, sfruttando opportunamente le dinamiche di gruppo, anche quello astratto: vale a dire  la generalizzazione dell’esperienza (“se si trattiene il respiro si galleggia molto meglio, vale per tutti”).

Questa forma di educazione acquatica, basata sulle risposte dell’individuo alle situazioni-stimolo ambientali, è tra l’altro perfettamente aderente alle teorie di Jean Piaget sulla psicologia dell’età evolutiva.

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Jean Piaget (1896-1980), pioniere della psicologia dell’età evolutiva

Per Piaget, lo sviluppo cognitivo del bambino deriva principalmente dall’interazione con la realtà circostante, grazie alla quale si verifica una trasformazione in termini di acquisizione di informazioni utili alla conoscenza pratica. In acqua la necessità di interagire continuamente con l’ambiente circostante diventa necessariamente “il” presupposto, una scelta obbligata. Sotto questo aspetto, un approccio consapevole nei confronti dell’ambiente acquatico può favorire sensibilmente, anche a livello più generale, l’educazione e l’affinamento della persona in crescita.

Nelle clip precedenti, abbiamo osservato l’azione dell’acqua sul corpo umano quando quest’ultimo, nel corso delle varie esperienze, cerca, nei limiti del possibile, di mantenere la stessa forma sotto l’azione dell’acqua, a prescindere dalla forma deliberatamente scelta in partenza. Rimanendo il più possibile “inerti”, a guisa di oggetti più o meno galleggianti, è molto più semplice osservare, per poi riuscire a distinguere e separare gli effetti delle azioni dell’acqua da quelle delle nostre attività, siano esse determinate e consapevoli, automatizzate oppure del tutto inavvertite.

Lo stesso livello di pura attenzione che riserviamo alle osservazioni relative ai comportamenti del nostro corpo come risposta alle azioni dell’acqua, andrebbe riservato anche allo studio dei comportamenti del fluido in risposta a nostre azioni volontarie e mirate. Anche in questi casi, la facilità di ricavare informazioni corrette ed obiettive è direttamente proporzionale alla semplicità delle attività motorie “di stimolo”. Si pensi alle esperienze sulle “frenate” durante gli scivolamenti.

In questo caso l’obiettivo della nuotatrice era quello di valutare l’efficacia della frenata durante lo scivolamento (lo “stop” andava ottenuto modificando improvvisamente e liberamente la propria forma corporea) e non certo quello di andare il più lontano possibile dal bordo vasca (che spesso rimane, purtroppo, l’unico esercizio richiesto nelle versioni prona e supina dalla stragrande maggioranza degli istruttori di nuoto tradizionali, durante le cosiddette fasi di ambientamento).

La nostra nuotatrice è giunta a quella efficace soluzione frenante dopo aver sperimentato moltissime altre possibilità alternative; ad esempio, allargando solo una gamba, o anche semplicemente piegandola, oppure allontanando le braccia distese o piegate dal tronco e testando infinite altre soluzioni simmetriche o asimmetriche, sempre prendendo scrupolosa nota delle risposte dell’ambiente fluido. Ad esempio, avrà scoperto che se, durante lo scivolamento veloce, allontana solamente un braccio dal tronco, oltre al rallentamento ottiene anche un cambio di direzione. Ma avrà anche capito che quest’ultimo effetto si può essere facilmente attenuare o del tutto annullare non solo con il gesto simmetrico dell’altro braccio, ma anche da altre opportune azioni antagoniste quali, ad esempio, un piegamento del capo.

La pura attenzione, quindi, comprende il campo di osservazione analitica ed obiettiva dei comportamenti che si instaurano nella relazione di base tra l’acqua e il corpo umano, prendendo atto dell’interscambiabilità dei ruoli attivi e passivi che si assumono a seconda delle circostanze. 

Però questo termine rimane valido ed appropriato solamente se lo spirito, e l’atteggiamento mentale, con il quale si affronta ogni esperienza rimane quello tipico di un laboratorio scientifico, dove l’esperienza viene studiata solo per quella che è, senza interferenze di ricordi passati o di progetti di costruzione futuri. E neanche senza subire l’influsso di precedenti condizionamenti, pregiudizi o aspettative, con la massima apertura mentale, avendo cura di non precludersi nessuna esperienza (a priori), non scartando alcun risultato (a posteriori) e, soprattutto, senza mai farsi vincere dalla tentazione di attribuire valutazioni qualitative ai risultati, come affermare “questa è la soluzione MIGLIORE”. Ci dobbiamo chiedere migliore per cosa? Lo vedremo in un prossimo articolo.

Giancarlo De Leo

 

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