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Il deus ex macchina di Milazzo

tempo di lettura: 9 minuti

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livello elementare

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ARGOMENTO: STORIA ROMANA
PERIODO: REPUBBLICA E IMPERO ROMANO
AREA: DIDATTICA
parole chiave: storia navale romana, Milazzo, arrembaggio

 

Arrembaggi ed arrembatori
Gli arrembatori, ovvero i combattenti che si lanciavano all’arrembaggio delle unità nemiche, facevano parte della fanteria imbarcata. Per indicare questo personale, ben distinto dai marinai (nautae) e dai rematori (remiges), le fonti hanno utilizzato le espressioni socii navales (in ricordo della loro prima origine, le alleate marinerie della Penisola), navales milites, classici milites ed infine classiarii.

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Classiari pronti al combattimento sul ponte di coperta di una nave da guerra romana in navigazione a remi. Particolare di un bassorilievo eroso all’estremità di destra, laddove era rappresentato il rostro della nave. Scultura risalente al terzo quarto del I secolo a.C., proveniente da Cuma e custodita dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

In tutti i casi in cui si rese necessario poter disporre in breve tempo di un consistente numero di fanti da imbarcare, i classiari vennero tratti direttamente dalle legioni, selezionando il fior fiore delle forze di fanteria, oppure tra uomini scelti per il loro grande coraggio, tutti volontari.

Nella normalità dei casi, invece, i militi navali venivano reclutati dalle colonie marittime della costa tirrenica, poi anche dalle altre marinerie d’Italia e delle province, allo scopo di disporre di gente in possesso di una sufficiente familiarità con il mare e con la navigazione.

Nei primi anni della seconda Guerra Punica i fanti navali risultavano già inquadrati in un ordinamento proprio, avendo costituito almeno tre legioni. Una sana rivalità con l’esercito si manifestò nel corso delle operazioni di Scipione in Spagna ma delle successive leve nel periodo della repubblica ci sono pervenute solo poche notizie occasionali. Maggiori informazioni si hanno per l’epoca imperiale, quando i classiari beneficiarono dell’ordinamento stabile conferito da Augusto alle forze armate. La loro principale caratteristica rimase sempre quella dell’elevato coraggio individuale.

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Rappresentazione sommaria di un grappino d’arrembaggio, equivalente alle manus ferreae dei Romani

L’apprezzamento del peculiare coraggio degli uomini destinati all’arrembaggio è comprovato, fin dalla prima Guerra Punica, dall’istituzione del premio della corona navale (d’oro) per colui che per primo balzava in armi su di una nave nemica. Il requisito del coraggio è ancora ricordato nel tardo impero da Vegezio così come, in età bizantina, dall’anonimo Ad Basilium patricium Naumachica (5,2), uno scritto reputato – come gli analoghi trattati di Siriano Magistro e di Leone VI – una rielaborazione aggiornata dei testi di tattica navale di epoca romana.

Entrambe le predette fonti ci forniscono anche dei dati relativi all’armamento dei classiari, il cui aspetto generale risulta ora abbastanza noto dall’iconografia. Essi indossavano una corazza anatomica leggera, probabilmente in cuoio, con varie protezioni, oltre all’elmo ed al gladio. Prima dell’arrembaggio utilizzavano lance o giavellotti, archi e frecce, fionde, falci taglia sartiame e vari tipi di macchine belliche imbarcate, quali scorpioni, baliste, onagri e catapulte, in grado di lanciare dardi, pietre ed altri proiettili, inclusi quelli incendiari. Vi erano infine i già citati grappini d’arrembo (manus ferreae) e l’arpagone (harpago), che Appiano chiama anche “corvo” (korax) e che doveva essere ancora in uso agli inizi del ‘600 visto che Pantero Pantera – che conosceva personalmente le esigenze dell’arrembaggio, avendo egli stesso catturato quattro galee turche – ne parla al presente.

Una transitoria variante dell’arpagone fu il cosiddetto “arpax” (più lungo e pesante, ma lanciato da una catapulta anziché a mano), ideato da Agrippa per la battaglia navale di Nauloco.

 

La presenza dei classiari e di tutto questo materiale era evidentemente finalizzata all’arrembaggio. Tuttavia, la dinamica degli scontri navali non consentiva di optare per la sola cattura delle navi avversarie astenendosi dagli speronamenti, poiché nelle fasi calde dell’attacco occorreva sfruttare ogni occasione per danneggiare il nemico, perlomeno fino a quando non vi fosse la certezza della vittoria. Pertanto, ogni combattimento navale includeva necessariamente sia delle manovre tattiche volte a neutralizzare o distruggere le unità nemiche, sia delle azioni conclusive intese ad acquisire la maggior quantità possibile di bottino navale.

Scorrendo il lungo elenco delle vittorie navali romane lungo l’arco di più di due secoli fra quella di Milazzo e quella di Azio, si ha la conferma della prevalenza delle navi catturate rispetto a quelle affondate. Possiamo verificarlo riepilogando sinteticamente i risultati conseguiti in occasione delle sole vittorie navali di maggior rilevanza:
Milazzo (260 a.C.): 31 navi catturate, 14 affondate;
Ecnomo (256): 64 catturate, 24 affondate;
Capo Bon (255): 114 catturate, nessuna affondata;
Egadi (241): 63 catturate, 125 affondate;
Corico (191): 13 catturate, 10 affondate;
Mionneso (190): 13 catturate, 29 affondate;
Bretagna (56): circa 200 catturate, nessuna affondata;
Nauloco (36): circa 200 catturate, 28 affondate;
guerra Aziaca (31): 300 catturate, circa 200 affondate o bruciate.

In totale, circa 1000 navi catturate contro 430 affondate. A questi dati andrebbero ancora aggiunte le 110 navi rostrate catturate da Lucio Lucullo ed esibite nel suo trionfo (63 a.C.) e le 800 navi rostrate catturate da Pompeo Magno nella guerra Piratica ed in quella Mitridatica, come egli stesso poté ostentare con cartelli riepilogativi e “un infinito numero di rostri” in occasione del suo terzo trionfo (61 a.C.).

A partire dalla seconda Guerra Punica, l’esperienza bellica dei combattenti imbarcati venne sfruttata anche per l’effettuazione di sbarchi navali, nonché per delle operazioni a terra protratte.

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elmo montefortino recuperato alle Egadi – Cortesia Archivio Soprintendenza del Mare – Regione Sicilia – foto V.C.Curaci

Conclusione
Il giudizio sull’impegno dei Romani nel teatro marittimo ha risentito di radicati pregiudizi relativi alla loro presunta avversione al mare ed alla loro incapacità di operare su di esso senza ricorrere ad artifizi intesi a cambiare le carte in tavola per far valere la loro superiorità nel combattimento terrestre. Gli stessi Romani, peraltro, non erano del tutto convinti di questa superiorità assoluta, visti i rovesci patiti nella guerra annibalica e compensati da una strategia navale e marittima vincente. D’altronde, perfino nell’unica sconfitta subita dalle loro flotte, a Trapani, 93 navi romane furono catturate con i relativi equipaggi: quindi, su tutte quelle navi, la cattura fu inevitabilmente preceduta da altrettanti “combattimenti terrestri”, tutti vinti dai Cartaginesi.

In ogni caso, l’esame fin qui condotto ha consentito innanzi tutto di liberarci dall’onnipresente condizionamento del corvo polibiano, un marchingegno più suggestivo che credibile, il cui impiego vero o presunto è risultato comunque irrilevante: tatticamente e storicamente.

È stato altresì accertato che la preferenza dell’arrembaggio allo speronamento non può essere semplicisticamente attribuita alla volontà di supplire alla limitata esperienza marinara dei Romani o alle minori capacità evolutive delle loro navi. Ciò in quanto anche la manovra per portarsi all’abbordaggio ed al successivo arrembaggio richiedeva prestazioni nautiche delle navi perlomeno pari a quelle delle unità nemiche, nonché delle spiccate qualità manovriere dei comandanti, ad iniziare da quello che in Marina chiamiamo “l’occhio cinematico”, ovvero la capacità di regolare prontamente la propria rotta per portarsi nella voluta posizione rispetto ad un’altra unità in navigazione.

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Classiario Montano Capitone (I sec.), imbarcato sulla liburna ravennate Aurata con il grado di optio. Bassorilievo su di un cippo-ossuario rinvenuto nel 2015 nell’area della necropoli di Classe e ora custodito nel Museo Classis Ravenna.

Abbiamo nel contempo constatato che, pur avvalendosi – quando necessario – anche dell’opzione dello speronamento, i Romani hanno effettivamente prediletto quella dell’arrembaggio, effettuato ogni qualvolta possibile, all’evidente scopo di trarre dalle vittorie in mare anche un utile immediato, per potenziare le risorse della flotta, ed a beneficio del morale degli equipaggi e della fastosità del trionfo. Le migliorie introdotte dai Romani in fase di preparazione ed esecuzione degli arrembaggi hanno ampliato i compiti della fanteria imbarcata, impiegata anche per il lancio di proiettili con le grandi macchine belliche sistemate sul ponte di coperta e per il tiro con l’arco dall’alto delle torri di combattimento appositamente innalzate. Le capacità acquisite da questi fanti li hanno resi idonei ad eseguire anche sbarchi navali, colpi di mano anfibi ed operazioni in costa. Con il loro apporto al combattimento navale, con l’effettuazione degli arrembaggi e con le loro proiezioni oltremare essi hanno fornito un contributo determinante all’espansione transmarina di Roma per oltre due secoli a partire dalla prima Guerra Punica, divenendo poi un prezioso sostegno della politica imperiale.

Pare in definitiva ben difficile giudicare rozzo ed inappropriato un modus operandi che non ha solo consentito ai Romani di creare, amministrare e rendere sicuro un impero esteso su tutte le sponde del nostro mare immensum , ma che ha anche messo a punto due innovazioni destinate ad essere longeve: una forma di combattimento navale orientato prioritariamente all’arrembaggio – come faranno poi tutte le marine fino all’epoca moderna – ed un impiego anfibio dei classiari che anticipa sorprendentemente quello delle odierne fanterie di Marina, come la nostra Brigata Marina S. Marco ed i marines dei paesi anglo-sassoni.

Secondo la narrazione di Polibio, la vittoria navale conseguita dai Romani nelle acque di Milazzo, in occasione del loro primo importante confronto con la flotta punica, scaturì essenzialmente dal terrore che pervase i Cartaginesi nel vedere che ogni loro manovra di attacco veniva frustrata dall’aggancio dei “corvi”, che incombevano da ogni parte. Questi attrezzi, descritti dallo storico greco, consistevano a grandi linee in una passerella mobile che, posta a prora delle quinqueremi romane e manovrata come un picco di carico, aveva al disotto della propria estremità una sorta di lunga zanna acuminata destinata ad agganciarsi ai bastingaggi delle unità nemiche giunte entro il raggio d’azione della macchina. L’arrembaggio romano sarebbe dunque avvenuto attraverso quella stretta passerella, sulla quale i combattenti romani potevano solo transitare in fila per due.

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Naturalmente salta subito all’occhio l’estrema vulnerabilità di tali assalitori, che dovevano accedere alla nave nemica soltanto da quel passaggio obbligato, divenendo un facile bersaglio per le frecce degli arcieri nemici. Dovremmo dunque presumere che, qualora la battaglia si fosse svolta proprio come l’ha descritta Polibio, la fiacca difesa cartaginese sia dipesa dal fattore sorpresa, che ha fatto prevalere lo sconcerto e la paura, inibendo l’attuazione di un’appropriata contromisura.  

Un altro motivo di perplessità proviene dalla descrizione polibiana delle manovre delle navi cartaginesi, perché le prime trenta risultano catturate mentre effettuavano l’attacco con il rostro. Ora, poiché il corvo polibiano aveva la capacità di agganciare le unità nemiche per non farle allontanare, ma non quella di respingere una prora rostrata in veloce avvicinamento, qualche nave romana avrebbe dovuto essere stata speronata.

Eppure sappiamo anche che i Romani non ebbero perdite, il che rende poco credibile l’attacco delle prime trenta navi puniche catturate. Della trentunesima, la poderosa nave ammiraglia di Annibale il Vecchio, non ci è stata descritta la manovra. Tuttavia, trattandosi della vecchia settereme che era appartenuta al re Pirro, essa era verosimilmente meno manovriera delle quinqueremi e comunque poco adatta a compiere essa stessa una manovra di attacco al rostro contro una nave romana. Parrebbe quindi più verosimile che l’avvicinamento finale per la conquista di quella prestigiosa nave sia stata effettuata dalla quinquereme romana che ha provveduto al relativo arrembaggio (mentre Annibale riusciva a trasbordare su di un’unità minore, sfuggendo per un pelo alla cattura).

Sappiamo infine che nella stessa battaglia navale i Cartaginesi persero almeno quarantaquattro navi (Polibio arrotonda a cinquanta), di cui trentuno catturate, come si è detto, e le rimanenti tredici affondate.

Qui abbiamo evidentemente un ulteriore problema, perché se i Romani non ebbero perdite e riuscirono invece a speronare in modo efficace ben tredici navi nemiche, vi è forse qualche motivo di dubitare dell’assioma secondo il quale le quinqueremi romane erano di gran lunga meno veloci e manovriere di quelle puniche, avendo oltre tutto dei comandanti inesperti ed incapaci di competere con la somma abilità dei loro corrispettivi cartaginesi nell’arte del duello navale con la sola arma del rostro. Ma se si respinge tale postulato, allora anche l’esigenza di semplificare l’arrembaggio con l’adozione del cosiddetto “corvo” risulterebbe meno credibile. 

Occorre in merito tener presente che questo fantastico deus ex ma-china della vittoria navale romana di Milazzo è stato citato e descritto come strumento bellico navale soltanto da Polibio. Le altre fonti storiche antiche che parlano della stessa battaglia in mare condotta da Duilio si limitano generalmente a citare l’uso delle cosiddette “mani di ferro” (manus ferreae), che non erano altro che i normali grappini lanciati in tutte le epoche dalle navi che procedevano all’arrembaggio. Oltre alle manus ferreae, talvolta fissate a lunghi pali, qualche fonte aggiunge ulteriori – non meglio specificati – congegni robusti o delle passerelle leggere utilizzabili dopo aver saldamente affiancato la nave nemica con i grappini. Si tratta, come si vede, di attrezzature marinaresche accessorie e subordinate all’uso delle manus ferreae: cercare di riconoscere in queste vaghe informazioni un’allusione al “corvo” polibiano mi sembra una forzatura ben poco credibile, poiché qualsiasi storico, se avesse voluto riferire la presenza di una macchina bellica talmente imponente, lo avrebbe scritto in modo del tutto esplicito e con qualche comprensibile enfasi. È pertanto più ragionevole attenersi alla lettera di quanto riportato da tutte le fonti antiche eccetto Polibio, e desumerne che i Romani avessero avuto cura di dotare le proprie nuove quinqueremi delle attrezzature marinaresche idonee per la manovra di affiancamento alle navi da arrembare.   

Domenico Carro

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