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tempo di lettura: 6 minuti

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ARGOMENTO: MARINA MERCANTILE
PERIODO: XX SECOLO
AREA: DIDATTICA
parole chiave: container

La Sea Land fu un’altra volta in prima linea, con quattro navi, della portata di 1000 TEU, con sofisticati apparati motore a vapore, destinate al servizio veloce del Nord Atlantico, con il caso tipico della Sea Land EXCHANGE che, nell’agosto 1973, fece il percorso del nastro azzurro dal faro di Ambrose all’Europa, al faro di Bishops Rock, alla velocità media di 34.92 nodi, solamente 0.67 nodi in meno del record detenuto dal transatlantico UNITED STATES, di 35.59 nodi. Tipico fu il caso della USS Callaghan sulla quale vennero valutati comparativamente – per la scelta definitiva da parte della US Navy – propulsori Pratt&Whitney PT4 e General Electric M2500, ambedue di derivazione aeronautica.

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U.S. Navy guided missile destroyer USS Callaghan (DDG-994) – Fonte U.S. DefenseImagery – autore PH3 Whorton, USN  USS Callaghan (DDG-994).jpg – Wikimedia Commons

Una corsa che ebbe termine con lo shock petrolifero, e l‘impennata dei costi dei combustibili che passarono rapidamente a livelli di 70 US$/T o più in alcuni paesi, rendendo impossibile la gestione di questi levrieri del mare appena costruiti; la US Navy assorbì il contraccolpo acquisendo le unità degli armatori statunitensi (peraltro già sovvenzionati) per la flotta di riserva, in alcuni casi sostituendo i propulsori, una mossa che si rivelò fortunata e decisiva per i successivi conflitti. Fu il punto di svolta,  la scelta diffusa dei soli contenitori ISO, irrevocabile ed inarrestabile, con il cambio di paradigma, da trasporto di nicchia, ad alto valore aggiunto, a trasporto di massa a costi sempre più competitivi,  fu anche il punto di svolta degli attori e delle competenze.

I terminalisti cominciarono ad acquisire sempre maggiore importanza rispetto a agli armatori, soprattutto ad opera degli operatori (cinesi) di Singapore, “città stato” che sui containers e le attività collegate (gestite da PSA, stato nello stato, che opera a livello globale) fece la sua fortuna. Un modello che fu prontamente imitato prima dai cinesi insulari e continentali. Alla fine del decennio ’70 il traffico di merci varie tra Europa, Asia, Sud Africa, Australia, Nord e Sud America divenne in gran parte containerizzato. Nel 1973, gli armatori di portacontainer europei, statunitensi ed asiatici trasportarono 4 milioni di TEU in tutto il mondo. Dieci anni dopo, nel 1983, si raggiunsero i 12 milioni di TEU, con una continua crescita che nel 2017 segnò un movimento di 753 milioni di TEU nei porti di tutto, con un incremento del 6% inter-annuale.

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porto di La Spezia – photo credit Giancarlo Calcagnini

Al gigantismo delle “navi madre”, che possono solo scalare terminali attrezzati e sempre più specializzati,  divenne necessario contrapporre la necessità di un traffico capillare ormai totalmente dipendente dai containers. Agli scali delle navi madre operanti su rotte regolari, principalmente circolari, per parallelo, si sovrapposero le rotte feeder, generalmente operanti per meridiano, servite con navi di dimensioni contenute, normalmente auto-scaricanti per servire porti non attrezzati

Un sistema complesso per il quale fu necessario pensare ad economie di scala: trovare una domanda sufficiente quale vantaggio potenziale.

Questo comportò un maggior rischio di impresa nel scegliere, gestire, e caricare la nave con una minor flessibilità nei porti scalati (pescaggio, banchine, carico-scarico, congestione del porto, ponti) e nelle rotte (canali, stretti) ed una corsa al gigantismo navale tanto rapida che le compagnie si trovarono presto a gestire flotte eterogenee dal punto di vista delle caratteristiche e dimensioni del naviglio. Si ebbe quindi la necessità di ricorrere ad alcuni rimedi:

– politiche commerciali di condivisione della capacità del carico,

– naviglio super post-panamax (e.g. consorzi di shipping),

– riutilizzo del naviglio di dimensione “media” (oggi di 6-8000 TEU) secondo  un cascade effect con riorganizzazione delle rotte e dei servizi, utilizzo su rotte “problematiche” per vincoli tecnici (ad esempio i porti USA) ed il vessel sharing agreements (VSA).

Lo shock petrolifero fu il punto di svolta:  la scelta diffusa dei soli contenitori  ISO, irrevocabile ed inarrestabile, con il cambio di paradigma, comportò il passaggio da trasporto di nicchia, ad alto valore aggiunto, a quello di massa a costi sempre più competitivi. Fu  anche il punto di svolta degli attori e delle competenze:  i terminalisti cominciarono ad acquisire sempre maggiore importanza rispetto agli armatori, soprattutto ad opera degli operatori (cinesi) di Singapore, “città stato” che sui containers e le attività collegate (gestite da PSA, stato nello stato, che opera a livello globale) fece la sua fortuna, creando un modello prontamente imitato prima dai cinesi insulari e continentali.

Alla fine del decennio degli anni ’70 il traffico di merci varie tra Europa, Asia, Sud Africa, Australia, Nord e Sud America era in gran parte containerizzato. Se nel 1973 gli armatori di portacontainer europei, statunitensi ed asiatici avevano trasportato 4 milioni di TEU in tutto il mondo, dieci anni dopo si raggiunsero i 12 milioni di TEU, con una continua crescita che nel 2017 segnando un movimento di 753 milioni di TEU nei porti di tutto, ovvero con un incremento del 6% inter-annuale.

Al gigantismo delle “navi madre”, che potevano solo effettuare scali in terminali attrezzati sempre più specializzati, divenne necessario contrapporre la necessità di un traffico capillare ormai totalmente dipendente dai container.  

Conclusioni
La nave portacontainer odierna si caratterizza per alcuni aspetti importanti (oltre ad essere quasi sempre esteticamente brutta):

– gli spazi destinati al carico, comunemente denominati stive, sono suddivisi nelle cosiddette baie ossia in volumi di forma parallelepipeda delimitati verticalmente dalle guide per l’impilaggio dei contenitori,

– nel tempo il carico – ossia i contenitori – hanno sempre più trovato collocazione anche al di sopra del ponte di coperta allo scopo di sfruttare tutta la capacità di carico (peso) possibile, prolungando al di sopra della coperta le guide per l’impilaggio dei contenitori,

– la capacità di carico di una nave portacontainer viene ormai espressa in TEU, come già trattato.

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porto di La Spezia – photo credit Giancarlo Calcagnini

Oggi si parla di portacontainer da decine di migliaia di TEU , ossia si tratta di un numero enorme di contenitori la cui movimentazione richiede un’organizzazione complessa ma anche capillare, attenta ai minimi dettagli, nonché una attenta gestione tecnico-nautica della nave con particolare riguardo alla stabilità statica trasversale ed alle sollecitazioni longitudinali. In particolare, le sollecitazioni che i tiranti di rizzaglio dei container devono sopportare quando la nave trova mare mosso e subisce forti oscillazioni di rollio e beccheggio, combinate tra loro

Una nave, oltre al moto di avanzamento, viene ad essere interessata da una serie di sollecitazioni, moti indesiderati ma prevedibili. Tali moti si traducono in accelerazioni sia lineari che rotazionali; assodato che ad ogni accelerazione che agisce su una massa m corrisponde una forza f, è chiaro che sia i contenitori stivati al di sopra del ponte di coperta, che quelli al di sotto, vengono assoggettati alle forze generate dalle accelerazioni suddette.

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Container collassati su un cargo – Autore Farid Mernissi Navire conteneur RAINER D au port.jpg – Wikimedia Commons

I sistemi di fissaggio dei contenitori tra loro, e tra i contenitori e i punti fissi del ponte di coperta devono quindi essere in grado di sopportare tali forze. Una delle principali fonti di preoccupazione per una porta contenitori è rappresentato dal mare al traverso, che è spesso causa di movimenti se non di caduta dei contenitori in mare, soprattutto quando si verifica la condizione di risonanza nel moto di rollio; la rotta assunta dalla nave in moto ondoso deve tenere conto di questi fattori. 

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Nave portacontainer “Seatrain Bennington” nel mezzo di  un uragano. La nave è fortemente sbandata sul lato di sinistra e alcuni container incominciano a scivolare in mare B. Containerschiff im Orkan – Winter-Nordatlantik 1980.jpg – Wikimedia Commons

Un problema tutt’altro che trascurabile come purtroppo hanno dimostrato non pochi incidenti in mare.

Fine parte – continua

Giancarlo Poddighe

 

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