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I progetti Tektite: come vivere e lavorare in isolamento sul fondo del mare

tempo di lettura: 5 minuti

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livello elementare

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ARGOMENTO: SUBACQUEA
PERIODO: XX SECOLO
AREA: DIDATTICA
parole chiave: TEKTITE project

 

Il progetto Tektite, o meglio i Tektite projects, furono sviluppati alla fine degli anni ’60 con l’idea di costruire un habitat sottomarino in acque relativamente basse (circa 38 piedi/11 m) vicino alla costa dell’isola di Saint John nelle Isole Vergini americane per studiare la risposta umana ad una vita isolata e sotto pressione. La scelta del nome del progetto, Tektite, derivò dal nome di piccole particelle che si originano come “polvere spaziale” e si accumulano sul fondo dell’oceano.

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la struttura Tektite II – Autore Cecil W. Stoughton (1920–2008) – Fonte National Park Service History Collection HFCA 1607 Tektite II April, 1970 (Color) Volume I 062.jpg (cf2e9211b6f64b3b9a15524a2740f986).jpg – Wikimedia Commons

L’habitat era costituito da due cilindri verticali posti su una base di appoggio e collegati da uno stretto passaggio. In particolare, uno dei cilindri ospitava l’abitazione degli acquanauti ed il laboratorio mentre l’altro consentiva l’accesso all’oceano esterno attraverso un’apertura sul fondo. Conteneva anche strutture tecniche e una cupola di osservazione sulla sua sommità. Per assicurarne l’alimentazione interna l’habitat era collegato con linee elettriche e di comunicazione con la vicina riva.

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la struttura Tektite II – Autore Cecil W. Stoughton (1920–2008) – Fonte National Park Service History Collection File:HFCA 1607 Tektite II April, 1970 (Color) Volume I 505.jpg (a13c133e24e54e4983767888cc05d107).jpg – Wikimedia Commons

Gli occupanti di Tektite raggiungevano nel tempo uno stato di “saturazione”, operando ad una pressione costante e maggiore di quella esterna. Questo comportava che al termine del periodo, per poter tornare in superficie, avevano bisogno di sottoporsi a una decompressione di circa 20 ore, che comprendeva dei periodi di respirazione di ossigeno puro, prima di poter emergere in sicurezza. La miscela di gas interna era composta dal 90,2% di azoto e dal 9,8% di ossigeno, che simulava un assorbimento di gas inerte equivalente a 48 piedi (15 m) di profondità. Questa profondità era stata scelta per consentire l’esplorazione di una specifica struttura della vicina barriera corallina. Ai subacquei, durante le loro esplorazioni subacquee, era stato permesso di scendere ad un massimo di 60 piedi (18 m) e risalire a 20 piedi (6 m) dalla profondità di saturazione.

Saturazione
La saturazione è una tecnica di immersione che coinvolge tutti i subacquei che vivono sotto pressione all’interno di un habitat iperbarico. L’assorbimento di gas inerte termina quando la tensione di tale gas all’interno dei tessuti raggiunge una soglia definita. Il corpo diventa saturo e non è più in grado di  accumulare nei propri tessuti nessun gas. Il vantaggio è che i subacquei possono operare in profondità indefinitamente senza aumentare le loro esigenze di decompressione. Prima di riemergere dovranno però subire un’unica, seppur lunga, decompressione. Questo metodo è attualmente ampiamente utilizzato dai subacquei commerciali che devono operare in acque profonde. In questo caso, l’habitat iperbarico non si trova sul fondo dell’oceano ma sul ponte di una nave. I sommozzatori vengono trasportati avanti e indietro dal loro posto di lavoro sul fondo del mare da una sorta di “ascensore iperbarico” chiamato campana subacquea. Questo vaso sigillabile può essere collegato all’habitat iperbarico e poi essere calato alla profondità operativa. I subacquei trascorrono più giorni, spesso settimane, saturi prima di dover emergere al termine della decompressione finale.

La durata della missione Tektite I fu di circa 60 giorni: durante ogni giorno, i subacquei trascorrevano una discreta quantità di tempo nuotando all’esterno, eseguendo una serie di compiti scientifici che includevano la raccolta di campioni, riprese e indagini biologiche. Essere saturi permetteva di tornare all’habitat asciutto, pressurizzato alla stessa profondità equivalente dell’oceano circostante, senza dover effettuare soste di decompressione. Al primo esperimento, svolto dalla marina statunitense, seguì un secondo (Tektite II) in cui lo sponsor principale del progetto fu la NASA, interessata a studiare e valutare le reazioni di una squadra di astronauti, nel caso acquanauti, costretti a vivere in uno spazio ristretto e isolato.

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la 5 missione del Tektite II, con un team tutto al femminile – Autore Cecil W. Stoughton (1920–2008) – Fonte National Park Service History CollectionFile:HFCA 1607 NPS Employees, Women 483.jpg (1ad559b3b01943828a73b03679cca2b8).jpg – Wikimedia Commons

Nel suo ambito furono effettuate dieci missioni di durata compresa tra 10 a 20 giorni. La quinta missione, denominata Missione 6-50, fu eseguita da un equipaggio tutto femminile di scienziati che comprendeva Sylvia Earle (leader), Renate Schlentz, Ann Hurley Hartline e Alina Szmant, studentesse laureate presso lo Scripps Institution of Oceanography, e Margaret Ann “Peggy” Lucas Bond, laureata in ingegneria elettrica come tecnico all’interno dell’habitat. Le missioni Tektite II furono le prime a intraprendere studi ecologici approfonditi partendo da un habitat in saturazione.

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ecco il team, la prima a destra è Silvia Earle … – Autore Cecil W. Stoughton (1920–2008) – Fonte National Park Service History CollectionFile:HFCA 1607 Tektite II April, 1970 (Color) Volume I 215.jpg (399b5b01c6414483a4d75cdf825813a1).jpg – Wikimedia Commons

Tornando alle problematiche psicologiche, comprendere le reazioni psicologiche di una squadra in isolamento era un passo fondamentale nello sviluppo del programma spaziale della NASA che si prefiggeva come obiettivo finale di portare un Uomo sulla luna. Il solo viaggio di andata e ritorno dalla Terra alla Luna avrebbe infatti richiesto circa sei giorni a cui andava sommato il periodo sulla superficie del nostro satellite. Durante questo periodo l’equipaggio, composto da tre astronauti, sarebbe stato confinato in uno spazio minimo senza alcuna possibilità di tornare sulla Terra, se non dopo diversi giorni nello spazio.

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gli alloggi interni – Autore Cecil W. Stoughton (1920–2008) – Fonte National Park Service History CollectionFile:HFCA 1607 Tektite II April, 1970 (Color) Volume I 513.jpg (d0129dbe47504b95b659349b69a29b1a).jpg – Wikimedia Commons

Una sfida quindi non solo fisiologica ma anche psicologica che comportò il monitoraggio di diversi fattori per valutare l’impatto della saturazione sul benessere dei subacquei.

La saturazione era una tecnica di immersione relativamente nuova; molte incognite dovevano essere indagate prima di usarlo come procedura standard. Gli acquanauti furono quindi oggetto di un ampio monitoraggio medico, comprese analisi ematologiche e, soprattutto, la valutazione dell’impatto sulla respirazione dell’esposizione a lungo termine a un’atmosfera più densa. Vivere in ambienti così ravvicinati esponeva gli occupanti al rischio di diffondere un’infezione; per questo motivo fu monitorata la tipologia e la concentrazione di batteri e virus dei subacquei e confrontata con quella dell’habitat, del gas respirabile e dell’ambiente esterno.

I risultati del programma furono complessivamente molto positivi, senza riscontrare effetti tali da limitare la capacità di lavorare per un tempo prolungato alla profondità prescelta. L’aumento dello sforzo respiratorio, dovuto all’atmosfera più densa, aumentò la forza dei muscoli respiratori e non furono identificate alterazioni nelle caratteristiche cellulari o chimiche del sangue. Lo studio sulle tabelle di decompressione rivelò che, anche considerando tessuti di emivita molto lunghi (480-500 minuti), esse sarebbero potuto essere troppo brevi per tessuti non vascolari come quelli oculari, ipotesi dimostrata da una piccola lesione trovata nel cristallino dell’occhio di uno dei soggetti. In realtà, senza effettuare un ulteriore trattamento iperbarico, la lesione scomparve completamente diversi giorni dopo la decompressione.

In sintesi, le sperimentazioni effettuate dimostrarono la possibilità di vivere e lavorare in isolamento sott’acqua per lunghi periodi aprendo nuovi orizzonti per la conquista degli oceani ma anche per quella spaziale.

Giorgio Caramanna

 

 

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