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Publio Vegezio Renato e la marina romana descritta nell’Epitome Rei Militaris

tempo di lettura: 7 minuti

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livello elementare

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ARGOMENTO: STORIA ROMANA
PERIODO: IV – V SECOLO
AREA: DIDATTICA
parole chiave:

 

Publio (o Flavio) Vegezio Renato è un personaggio un pò misterioso, di cui nulla si sa a parte quanto si può desumere dal contenuto delle sue opere giunte fino a noi. Fu certamente un cittadino romano importante e probabilmente cristiano e più che un autore può essere considerato un compilatore e divulgatore, cui peraltro va il merito di aver raccolto e tramandato in modo accurato due aspetti del sapere antico anche se molto diversi fra loro: la veterinaria (facendo pensare che fosse un proprietario terriero che, come tanti suoi pari, si interessava all’agricoltura), e l’arte militare benché non vi siano indizi che abbia mai fatto parte dell’esercito. 

La sua opera in materia militare prende il titolo di  Epitome Rei Militaris ed è una raccolta di prescrizioni e di massime probabilmente ricavate, oltre che da autori precedenti, anche da una serie di “Fogli d’ordini” ante litteram e scarni documenti compilati dai comandi ed esistenti nelle fortezze o presso le legioni sui quali  immaginiamo che apprendessero le teorie di base gli ufficiali, spesso digiuni di esperienza perché provenienti dai ranghi della politica o dalla Corte. La compilazione del trattato gli venne richiesta da un imperatore: si fanno più nomi, forse Teodosio I o Valentiniano II. Chiunque fosse il committente, il trattato fu redatto alla fine del IV o all’inizio del V secolo, nell’ambito di un impero decadente ma ancora solido nonostante i primi arrivi delle popolazioni barbare.

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Una raffigurazione baroccheggiante della battaglia di Azio in un dipinto del 1672 di Laureys a Castro 1672 – Fonte National Maritime Museum, Greenwich – da Wikipedia

In definitiva l’Epitome Rei Militaris, proprio per questo e nonostante lo stile essenziale, rappresenta il compendio e la migliore eredità lasciataci nel campo delle conoscenze dell’arte militare romana al termine di un’evoluzione avvenuta nel corso di molti secoli e il suo contenuto fu ampiamente conosciuto e apprezzato anche nel medioevo.

L’opera si divide in quattro libri:

-Addestramento delle reclute;

-Struttura delle legioni;

-Tattica e strategia;

-Fortificazioni, loro attacco e loro difesa.

E la marina militare romana? Vediamo cosa ci racconta l’autore.
Come è ben noto, in epoca imperiale la Marina romana  aveva soprattutto  generiche funzioni di polizia marittima e svolgeva trasporti per conto dello stato e dell’esercito: per questa posizione ancillare Vegezio dedica ad essa solo la fine dell’ultimo libro, con sedici brevi capitoli (Dal XXXI al XLVI) perché, come ammette lui stesso, de cuius artibus ideo pauciora dicenda sunt  e cioè “quindi dell’arte navale c’è meno da dire” limitandosi a poche notizie molte delle quali, fin da allora, erano ovvie e ampiamente di pubblico dominio.

Nella sua epoca le sedi delle flotte principali risultano ancora quelle dell’età classica: Miseno e Ravenna con competenza rispettivamente sul Mediterraneo occidentale e su quello orientale comandate da due praefecti da cui dipendevano i tribuni delle coorti della fanteria di marina e i navarchi. Questi ultimi erano i comandanti delle navi a cui erano sottoposti i soldati e tutto l’equipaggio e che curavano il  loro addestramento, anche se quanto era attinente la navigazione era sopratutto demandato, come già rilevato in altri autori, al gubernator, il pilota.

Vigeva quindi ancora l’ordinamento del primo impero, con la marina incardinata al sistema legionario costituendo la Legio I Adiutrix e la Legio II Adiutrix anche se sembra che la suddivisione in coorti rispecchiasse solo il tempo in cui l’autore scrive, non essendovi precedenti che si rifacessero a un ordinamento di questo tipo e, d’altra parte, la suddivisione in centurie, piuttosto che in grandi unità, appare più consona in relazione allo spazio disponibile sulle navi e al tipo di operazioni richieste. Possiamo aggiungere che la Marina, a differenza di corpi come i Pretoriani o i Vigiles, non aveva nessuna individualità che la distinguesse dal resto dell’esercito e quindi troviamo spesso le due legioni distaccate e combattenti con la fanteria lontano dal mare  ogni volta che fosse necessario.

A proposito delle navi va notato che in tutto il testo l’autore parla ad ogni occasione soltanto di liburne di varie dimensioni, unità leggere e veloci e sembra quindi che le grandi e massicce triremi, quadriremi e quinqueremi fossero scomparse. E’ un segno dei tempi: i barbari premevano solo alle frontiere terrestri e non si avventuravano sul  mare e, non essendoci nemici contro cui combattere, si preferivano quindi naves bellicae più piccole e multimpiego e soprattutto meno costose per le finanze dell’impero d’occidente ormai avviato verso un’ irreversibile crisi economica e, d’altra parte, è lo stesso Vegezio a ricordare che alla battaglia di Azio presero il mare navi molto più grandi.

La liburna era un’agile nave tipica dei Liburni, popolazione che abitava le coste settentrionali della Dalmazia. Secondo Vegezio, durante la battaglia di Azio del 31 a.C. fra Ottaviano e Marco Antonio, fu Ottaviano a notare come le prestazioni di queste navi, usate dagli alleati Liburni, fossero particolarmente brillanti, così che Roma fece poi tesoro di questa esperienza.

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Due liburne raffigurate in un bassorilievo della colonna Traiana – Conrad Cichorius Die Reliefs der Traiansshale, tafel XLVIII – Wikipedia, opera di pubblico dominio

In realtà nel suo lavoro Vegezio nomina fuggevolmente altri due tipi di navi, benché anch’esse molto piccole e usate solo per il pattugliamento. Con citazioni isolate e tutto sommato ingiustificate considerata la sommarietà della trattazione, sono citate in primo luogo le naves picatae usate in Britannia, il cui nome sembra derivare dalla pece usata nelle connessure,  e poi  le naves lusoriae sulle quali scrive di non volersi soffermare. Le lusoriae, come dice il nome, in origine non erano altro che imbarcazioni di lusso usate dall’aristocrazia, ma si trasformarono in navi militari conservando la denominazione e le caratteristiche di massima e nel basso impero le troviamo adibite alla sorveglianza dei fiumi della Germania e dei laghi prealpini dove, magari mimetizzate nei canneti, grazie al limitatissimo pescaggio potevano avvicinarsi alla riva e controllare quanto vi stava succedendo.

Fra le varie notizie generiche come l’osservazione della luna per la previsione del tempo,  le denominazioni dei venti, i periodi in cui non è opportuno navigare che potrebbero al massimo comparire in un manuale per diportisti, ecco un’informazione interessante: quando le navi avevano compiti esploranti o erano incaricate di rapidi colpi di mano, perché non fossero tradite dal loro candore, le vele e le funi sono tinte di azzurro che è come le onde del mare; e i marinai e soldati indossano abiti blu in modo che possano  essere più facilmente nascosti non solo durante la notte, ma anche durante il giorno. Compare per la prima volta il blu per l’uniforme navale anche se sarebbe diventato di uso universale almeno milletrecento anni dopo.

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Navi romane- Fonte A. Guglielmotti: “Delle due navi romane scolpite sul bassorilievo portuense del principe Torlonia” in “Rivista Marittima” Gennaio 1874

Finalmente dopo una serie di considerazioni attinenti la meteorologia o il semplice buon senso, solo a partire dal  44° capitolo Vegezio entra nel vivo dei comportamenti da adottarsi in occasione di un combattimento navale. L’autore sottolinea l’importanza di affrontare il nemico con mare calmo e lontano dalla riva in modo da poter manovrare con sicurezza e non rischiare di imbattersi in bassifondi e scogli e, semmai, stringerlo contro la costa perché sia lui a trovarsi in posizione svantaggiata; nel caso dello spiegamento di una flotta consiglia la formazione a mezzaluna così che se il nemico tentasse di sfondare il centro dello schieramento verrebbe stretto ai lati e chiuso in trappola dalle altre unità. Il combattimento navale antico richiedeva più armi di uno scontro terrestre perché, prima del corpo  a corpo conseguente all’abbordaggio, c’è la fase in cui le navi, pur vicine, non sono in contatto e di fatto ciascuna si presenta all’altra non diversamente da una fortezza  e, come per le fortezze, devono essere munite di un parco d’assedio per danneggiare a distanza il nemico. In primo luogo l’autore raccomanda che i soldati debbano quindi essere sempre ben protetti da corazze ed elmi pesanti dovendosi aspettare l’arrivo di pietre scagliate da lontano e materiale incendiario. Se la letteratura più corrente, fin dai tempi di scuola, si limita a citare come armamento gli speroni e i corvi, passerelle con ganci all’estremità costruite in modo da arpionare la nave nemica e su cui poi si slanciavano i soldati durante gli abbordaggi,  Vegezio enumera anche una ricca dotazione di altre armi, alcune analoghe a quelle usate dall’esercito, ma con dimensioni  ovviamente molto più ridotte e precisamente:

– L’asser è un’arma di cui non si trova riscontro in altri autori: era una lunga antenna sporgente dalla prua, in legno rinforzato con ferro che, in pratica, prolungava la portata dello sperone che anche sulle unità maggiori superava raramente il metro di lunghezza: si dimostrava più leggera ma anche più efficace perché dopo essersi portati perpendicolarmente al fianco della nave nemica entrava in funzione l’asser che, se  calato all’altezza del ponte avversario e opportunamente manovrato, lo spazzava  dei soldati, delle attrezzature e delle armi; se abbassato trafiggeva lo scafo, bloccandolo e causando vie d’acqua; l’azione era resa più micidiale nel caso che il malcapitato venisse stretto con due navi munite di asser che, da destra e da sinistra, la colpivano alternativamente, come con un ariete. Si evitava così anche il rischio che la prua della nave speronatrice rimanesse incastrata in quella avversaria.

– Gli onagri, sostanzialmente  catapulte che lanciavano palle di pietra o di ferro. In relazione alle dimensioni del proiettile potevano avere una gittata che arrivava perfino a 600 metri.

– Gli scorpiones, sorta di grandi balestre con i meccanismi in metallo e dove anche l’arco poteva essere costituito  da lamine di bronzo.

– Gli arpagones, arpioni lanciati con una catapulta che agganciavano la nave avversaria a distanza e poi, mediante delle funi, l’avvicinavano alla propria. Erano molto più leggeri e meno ingombranti dei corvi  ed eliminavano i limiti di questi ponti mobili, soggetti al moto ondoso e dove gli uomini erano costretti a procedere in fila indiana.

– Le falces, lame falcate poste all’estremità di un lungo palo che,  opportunamente manovrato, tagliavano il sartiame e facevano cadere le vele. A queste vanno aggiunte le frecce incendiarie  e i grossi proiettili composti da sostanze imbevute di zolfo e bitume  lanciati dalle macchine da guerra, poco efficaci nei combattimenti terrestri ma micidiali quando si dovevano affrontare delle fortezze alle quali, come abbiamo detto,  potevano essere assimilate le navi.

Il considerare i rischi, i  molti modi di morire e l’impossibilità di una fuga individuale fanno esclamare a Vegezio: Quid enim crudelius congressione navalim ubi et aquis perimuntur et flammis?: “cosa c’è infatti di più crudele di un combattimento navale dove gli uomini periscono sia per l’acqua che per il fuoco?”, con il corollario, che fa inorridire l’autore, che i corpi non possono essere sepolti ma vengono divorati dai pesci.

Un altro espediente ricordato da Vegezio viene riservato agli uomini più abili: mentre ferveva il combattimento con piccole imbarcazioni si portavano non visti a poppa della nave avversaria e  tagliavano i cavi  del timone e a questo punto  quid enim salutis superest ei quae amiserit clavum? “Che salvezza ha chi ha perso il timone?” Quasi un presagio di quella che fu la sorte riservata al Re d’Italia nel corso della battaglia di Lissa. 

Guglielmo Evangelista

 

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