livello elementare
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ARGOMENTO: ARCHEOLOGIA
PERIODO: XXI SECOLO
AREA: DIDATTICA
parole chiave: Archeologia, Archeologia Subacquea, strutture navali
Come detto nel capitolo precedente, un’imbarcazione è il prodotto di una convergenza di fattori in risposta ad una necessità primaria legata alla navigazione e al trasporto ma cosa succede nel momento in cui uno di questi fattori viene alterato o la stessa imbarcazione non è più in grado di adempiere alla funzione per cui è stata creata?
Fin dall’antichità, e in parte ancora oggi, il destino naturale di uno scafo al termine della sua “vita” è l’abbandono o il reimpiego. In questo capitolo si cercherà di comprendere in che cosa consisteva l’attività di riuso: quando, per quale motivo, in che contesto e con quali modalità veniva praticato.
Come manufatto un’imbarcazione è il risultato di un ciclo produttivo che, schematizzato da Schiffer (Fig. 1), inizia con l’approvvigionamento delle materie prime necessarie, segue una fase di costruzione, di uso, di un’eventuale manutenzione ed infine, quando viene estromesso dall’attività di una società culturale, si trasforma in un rifiuto entrando a far parte del contesto archeologico. Nella realtà questo processo non è così lineare, ma molto più complesso, difatti un’imbarcazione o le sue attrezzature per motivi accidentali o deliberati potrebbero essere:
- abbandonate e in un secondo momento essere reimpiegate integralmente o solo in parte;
- smantellate e immagazzinata in modo da essere a disposizione per un futuro;
- direttamente reimpiegate integralmente o in parte.Qualunque sia il tipo di reimpiego, che può avvenire in qualunque momento del ciclo di vita, è fondamentale comprendere i fattori ambientali, economici, sociali e culturali che hanno indotto tale attività, attraverso la ricostruzione dei processi formativi del deposito archeologico. Per cui è necessario riconoscere gli agenti naturali e culturali che hanno contrassegnato le fasi pre e post deposizionali e saperli interpretare confrontando diverse fonti a disposizione dell’archeologo, da quelle documentarie a quelle scientifiche. Naturalmente lo stato di conservazione del relitto e la documentazione di scavo giocano un ruolo fondamentale. Innanzitutto bisogna distinguere tra relitti abbandonati e naufragati, poiché soprattutto in passato, accadeva che si tendesse a studiare i primi alla stregua e con le stesse modalità dei secondi, quando in generale i reciproci processi formativi risultano profondamente differenti
Il principio fondamentale su cui si fonda questa distinzione è l’intenzionalità del comportamento umano, giacché consideriamo un relitto naufragato come l’esito negativo di evento catastrofico casuale, mentre l’abbandono deriva da un’azione consapevole e deliberata.
Richards propone tre tipologie d’abbandono:
– l’abbandono per catastrofe, quando a causa di un imminente disastro l’abbandono della nave può significare la salvezza dell’equipaggio. In questo caso siamo difronte al relitto per eccellenza, poiché non si tiene conto del valore del carico o della nave stessa. Il Mediterraneo è costellato di questi relitti;
– l’abbandono conseguenziale quando si decide di accettare il naufragio col fine di proteggere l’equipaggio e salvare almeno in parte il carico. Verosimilmente possiamo intravedere questa decisione nel racconto del naufragio di San Paolo presso l’isola di Malta;
– l’abbandono deliberato avviene a seguito di una decisione volontaria, per la quale si persegue un processo di preparazione della nave e si decide il luogo di giacitura e il grado di integrità dello scafo.
L’attività di scarto, o per meglio dire d’abbandono, produce tre principali tipologie di ritrovamento: una singola nave isolata, oppure una serie d’imbarcazioni concentrate e in alcuni casi accumulate, ed infine componenti o attrezzature navali disarticolati
Sempre Richards considera le offerte votive di navi, l’uso di scafi come sepolcri, come barriere difensive, come materiali di costruzioni edilizie alla stregua di abbandoni.
Per quanto sia un discorso molto complesso, personalmente ritengo sia più corretto parlare di reimpiego, tracciando con questo termine il riutilizzo secondario di un oggetto nel momento in cui viene svuotato della sua funzione primaria. Abbandonare un oggetto, che sia una nave o altro, significa non prospettare alcun ulteriore valore di utilità, per questo diventa un rifiuto; reimpiegarlo anche per una funzione o un ruolo che lo porterà a essere semplicemente alterato della sua originaria funzione, obliterato se non addirittura distrutto, antropologicamente ha un significato diverso perché si offre di valorizzarlo. In questo senso colgo grande ispirazione dall’episodio di Temistocle narrato da Plutarco di cui parlerò in seguito.
Come detto in precedenza il processo di reimpiego può avvenire in momenti strategici della vita di un oggetto e Schiffer ne distingue diverse varianti:
- Il ciclismo laterale [che] sussiste quando vi è un cambiamento dell’utilizzatore o della proprietà di un oggetto senza che vi sia una modificazione nella forma e nell’uso. L’esempio più comune è la circolazione di un oggetto tra diversi gruppi o classi sociale.
- Il reimpiego vero e proprio [che] comporta la reintroduzione di oggetto nel sistema culturale attraverso un nuovo processo di fabbricazione che può modificarne forma e funzione. A livello archeologico è esemplificabile dal reimpiego del capo di banda di una nave come elemento strutturale avente la stessa funzione su di un’altra nave ma le cui dimensioni impongono alterazioni sul pezzo, oppure nell’affondamento o conversione delle navi per ruoli di supporto secondari, come fondazioni di strutture o come barriere difensive. In campo archeologico il fenomeno del reimpiego è stato ampiamente studiato soprattutto per casi monumentali e architettonici, poiché dal periodo tardoantico era pratica comune riutilizzare elementi architettonici e decorativi antichi in edifici più recenti per motivazioni funzionali, economiche, simboliche o ideologiche.In diversi contesti archeologici si è riscontrato che un riuso di materiali differenti è spesso determinato dalla risposta pratica ad un’urgenza improvvisa, a convenienze economiche, ma in alcuni contesti può assumere un significato ideologico, perché testimonianza di un passato da ricordare o celebrare, come avviene in ambito architettonico. Generalmente il reimpiego ligneo s’interpreta come reazione ad una carenza della risorsa, ma le motivazioni per ogni caso possono essere più complesse, soprattutto in contesti a carattere rituale
Dalla lettura delle fonti, documentarie e archeologiche emerge un fine prettamente economico del reimpiego navale, come possiamo costatare anche per altre classi di materiali come la ceramica. La rifunzionalizzazione di materiale fittile come laterizi, tegole, mattoni, anfore e vasellame era diffusissimo in epoca antica, di cui abbiamo numerose testimonianze per il periodo romano. Potevano essere reimpiegati come materiale da costruzione di seconda mano o venire completamente defunzionalizzati ed essere destinati a usi funerari, edilizi, decorativi.
Non bisogna pensare che il riuso sia una pratica occasionale, ma doveva essere economicamente organizzata. Il legno è un materiale soggetto a un degrado obbligato, soprattutto se utilizzato in ambiente umido, e per questo necessitava manutenzione.
Da un punto di vista puramente economico, quando il costo di manutenzione di una nave superava i benefici d’uso era destino fosse abbandonata o reimpiegata come fonte d’approvvigionamento, per questo esistevano magazzini di stoccaggio di attrezzature e componenti strutturali navali. Dalla consultazione delle fonti documentarie, iconografiche e archeologiche sono state individuate diverse tipologie di reimpiego navale comprese in un quadro cronologico molto ampio; è ipotizzabile esistessero altre forme di riuso, in parte individuate dalla lettura delle fonti di cui però non sono si conserva traccia fisica, mentre altre sono note per epoche posteriori.
da Il reimpiego navale nell’antichità | Chiara Rossi – Academia.edu
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